Alessia Incampo, classe 2001, viene dall’entroterra pugliese, dalla murgia fatta di piante che crescono facendosi largo tra le pietre. Così dice la sua biografia; ma la biografia di uno scrittore, di una scrittrice, viene dalle cose che scrive – la biografia, un’autrice se la scrive. Alessia in questo caso scrive di nonna Carmela e di un nonno che ha nelle sue scelte le scelte del passato; e il canarino del titolo diventa un simbolo, che in parte è ciò che chiama alla vita pur non essendo presente, non essendo vivo; in parte, essendo un simbolo, non lo sappiamo. E cosa non sappiamo, qui? Il passato del nonno, appunto; che come nelle migliori scene, qui si palesa senza parlare, muove attraverso le scelte presenti.
Alessia è giovane, ma queste scelte sentono di una maturità di lettrice molto interessante. E questa, lo sapete, è la cosa più bella che leggerete oggi.
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I passi di nonno erano ampi ma cadenzati come una ninna nanna e io riuscivo a trotterellargli accanto senza restare indietro. Passeggiavamo in villa tutti i venerdì dopo il catechismo e ogni volta io mi sbracciavo verso un albero storto o un’edera o un fiore a cui non sapevo dare un nome e lo riempivo di domande.
Lui si fermava a osservare in silenzio e io aspettavo trepidante una risposta.
– Allora? – lo imbeccavo
Lui sorrideva e mi rispondeva: – Quante ne vuoi sapere!
Poi mi raccontava delle piante che hanno bisogno di altre piante per appoggiarsi, di quello che una volta gli aveva venduto i semi sbagliati, delle file alle poste e di un sacco di cose complicate che
non c’entravano niente con la mia domanda.
– Ne posso prendere uno? – domandai indicando una margherita nell’aiuola, dopo una lunga conversazione su quanto costassero un paio di scarpe quando c’erano ancora le lire.
– No, ci pisciano sopra i cani.
– Ma tu mica lo sai se su questa ci hanno fatto la pipì.
– Si vede. E poi nonna Carmela ci dà mazzate a tutti e due se entri in casa con quel coso che poi marcisce e ci fanno i vermi.
– Allora dillo che è perché non vuoi. – risposi.
– Se vuoi prendilo, ma puzzerà della pipì del cane.
– Non è vero; mi stai dicendo una bugia.
Nonno si inginocchiò accanto a me..
– Vedi che il pallino al centro è giallo?
Io annuii.
– Lo sai perché è giallo? Lo sai o no?
Feci cenno di no.
– Perché prima di noi è passato un cane e ci ha fatto la pipì.
Guardai il fiorellino sconfitta.
– Allora? Ti dice le bugie nonno?
Era talmente vicino che potevo sentire l’odore del borotalco che spalmava sulle guance dopo la rasatura.
– No. – dissi piano.
Nonno mi sollevò il mento con l’indice in orizzontale e si alzò.
– La vuoi ancora? – mi chiese con un sorriso che suggeriva la risposta.
– No.
Camminammo ancora e nessuno dei due parlò fino a quando non ci avvicinammo alla bancarella di giocattoli che il venditore aveva montato davanti alle giostre per bambini. Tra il mucchio di
cianfrusaglie spiccava una gabbietta di plastica in cui abitava un canarino robotico.
Il venditore seguì il mio sguardo e spinse un pulsante nascosto. Il canarino giallo prese ad agitarsi e a cinguettare.
– Ti piace quello? -Mi chiese nonno.
L’uccellino era coperto di finte piume gialle e al posto degli occhi c’erano due palline nere che fissavano il vuoto.
– Nonno, sembra vero!
– Ti piace?
Se me lo prendi, io ti perdono per la margherita, pensai mentre allungavo l’indice per accarezzare il canarino. Avrei potuto metterlo sul davanzale e accenderlo tutte le mattine, e magari un giorno
qualche altro uccellino sentendolo lo avrebbe scambiato per vero e sarebbe entrato in casa.
Con quel finto canarino ne avrei guadagnato uno vero, anche perché quello vero non me lo avrebbe mai comprato.
– Nonno, questo non sporca e non gli devo dare mangiare, però posso fare finta che è vivo per davvero.
Il venditore colse l’occasione di intromettersi nella nostra conversazione.
– Solo le batterie ci vogliono.
Nonno guardò me, poi studiò a fondo il canarino, e infine fissò negli occhi il venditore.
– Quanto vuoi?
Il venditore mise le mani nelle tasche, piegò la testa di lato e disse che voleva venti euro per quel coso. Nonno indietreggiò come se qualcosa lo avesse colpito. Schioccò la lingua sul palato e gli
rispose che non se ne parlava proprio, quel giocattolo non valeva più di cinque euro.
Io accarezzavo l’uccellino dagli occhi vacui.
Prendimelo, che diavolo, o se no torniamo indietro e cerchiamo una margherita pulita, pensai.
– Venti euro e fai felice la bambina- disse il venditore.
– Venti te li scordi. Facciamo dieci e non se ne parla più – ribatté nonno.
– Venti – ripeté il venditore.
– Allora arrivederci e grazie.
Nonno mi prese per la mano e continuammo a camminare oltre le giostre. Mi voltai a guardare il venditore che mostrava il canarino giallo a un altro bambino. Non riuscivo più a tenere il tempo di nonno, i passi si erano fatti profondi e svelti e lui quasi mi trascinava.
– Sei stata proprio brava, ‘a nonno. – si fermò.
– Io? – chiesi.
– Sì. Quello voleva che tu ti mettevi a piangere.
– Perché?
– Perché così gli davo venti euro. Ma tu sei stata in gamba e lo abbiamo fregato.
Nonno mi guardò orgoglioso. Io pensai che quella era proprio una gran fesseria.
– Lo abbiamo fregato – ripetei.
Nonno si voltò in direzione del venditore, mise il pollice sul naso e agitò le altre dita.
– Piripì – disse, e io lo copiai.
– Piripì.
Il venditore era troppo lontano per vederci e di certo la mamma dell’altro bambino il canarino glielo aveva comprato. Però io e nonno lo avevamo fregato.
©Alessia Incampo
Foto dalla Rete.