L’altro giorno camminavo sulle rive del fiume, osservando la piena. L’arginello era stato scavalcato dalle acque e le ordinanze comunali avevano reso inaccessibili i tratti arginali, chiuso il ponte al traffico pesante e leggero, posto sette uomini della Protezione Civile a disposizione continua per osservare il flusso delle acque, in costante ascensione.
C’erano tratti in cui il corso era più chiaro, altri in cui era più scuro; e le mie memorie viaggiavano tra Conrad e Luna Rossa, nell’individuare i punti in cui le correnti sarebbero state favorevoli al viaggio in barca, o meno.
Silvia mi ha chiamato; ha detto Andiamo di là. Avevo il cranio che mi faceva male dal freddo – quando sei pelato, e rasato, il concetto di cranio esce dal mondo dei concetti e ti si fa reale -; abbiamo affrontato tratti di vento più tagliente per superare il casotto che fu della Lega, con una stella di Natale contenente il Sole Padano ormai tramontato, e dirigerci verso san Martino.
Là deve essere successo qualcosa di cui non ho memoria. Qualche minuto dopo, infatti, mi ha chiesto Eh? e io devo aver risposto qualcosa tipo Sono d’accordo, per uscire dall’impasse delle domande che non hai davvero sentito.
Stavo pensando al romanzo; al perché dovrei costruire romanzi, come si costruiscono castelli di sabbia.
Mi spiego.
L’architettura dei castelli di sabbia è quanto di più semplice e complesso. Ci sono i bambini, spesso con le mutande che lasciano intravedere il solco delle chiappe, che corrono tra la battigia e l’ombrellone dei genitori – il padre: all’ombra; la madre: al Sole – per riempire di volta in volta il secchiello e rovesciare tronchi di cono in mezzo alla sabbia rovente.
Là diranno il risultato: il mio castello. La madre penserà: che genio mio figlio, e dirà: bravo. Il padre penserà: che caldo, e dirà: mettici uno stecchino in cima, vè.
Poi ci sono bambini più precisi, o più schifiltosi, che differenziano la sabbia tra bella e brutta, chiara e scura, con le alghette o senza – anche a seconda della tredicesima del padre o della rata della lavatrice nuova, che li porti a Marina di Pietrasanta o solo a Ostia -, e in base a quella selezione costruiscono un castello un po’ più curato. Si dotano, senza investiture parentali, di uno stecchino, ma non per farvi una sorta di pinnacolo, quanto per tornire alcune parti, fare delle finte finestre, addirittura delle bifore; provare archi sghembi.
Poi arriva la corrente, in questo caso e nel primo, e del castello del giorno prima non c’è traccia.
Il bambino che ci abbia creduto diventa un adulto. E l’adulto si approccia al castello di sabbia con la perizia di un ingegnere e la capacità di generare sogni di un bambino che veda disegnare un fumetto a un tavolo che sta due spanne sopra la sua testa, e allora sta sulle punte delle sue scarpe ortopediche a guardare i tratti che si animano. Il nostro adulto, fra mille adulti che stanno al Sole o all’ombra e pensano Che genio mio figlio o Che caldo, si sottopone allo scherno del mondo e inizia a trasportare sabbia bagnata, che si mette a selezionare tra le sabbie per la giusta capacità di tenuta, il colore, altro. Ha a disposizione litri di acqua, per la sua pelle bruciata e per il castello; crea delle fondamenta, e sulle fondamenta butta Vinavil per fissare la struttura, e poi versa nuova sabbia bagnata, e intanto il Sole picchia ma lui non si ferma perché sa che su tutto incombono le otto e mezza, e le otto e mezza saranno l’ultimo momento utile per le foto senza flash. E allora s’affretta e crea, stavolta sì, le bifore che da bambino aveva solo abbozzato; e sente, nel creare le bifore con strumenti più da scultore che da costruttore di castelli di sabbia, che esiste amore tra lui e la bifora, amore tra le sue dita e i grani di sabbia, amore tra lui e i grani di sabbia e l’acqua, e non avrebbe mai pensato, da bambino, che quell’amore si sarebbe staccato da lui e sarebbe poi tornato, gitano, da adulto.
Poi alza gli occhi, il nostro adulto, in mezzo a questa quota d’amore sovrana. E vede occhi curiosi di bambini, per i quali pagherebbe il mondo che ha; e vede le otto e mezza che incombono; e vede adulti meravigliati, e adulti che scuotono la testa e dicono Questi artisti, e adulti che dicono Ha tempo da perdere. E pagherebbe per vedere un adulto, uno solo, quello perfetto che dice lui, che basso e con un lieve rilievo della pancia e i baffi gli dicesse Mettici uno stecchino in cima, vè.
E allora il nostro adulto, alle otto e due minuti precise, si alza e se ne va, lasciando il suo castello in balia alle macchine fotografiche e alle onde che del Vinavil che ha messo copioso se ne sbatteranno, come è giusto che sia.
In tutto questo, il romanziere ha, all’interno del castello, anche principesse che vengono inseguite dagli orchi, Gesù nelle segrete che è flagellato e urla Perché, mio Dio, e paggi che si rincorrono, e un drago che sputa fiamme, e il Re che muore e il Principe che lo deve vendicare e tiene un teschio tra le mani, e il vento che fischia, e intanto le onde che piano, piano, si avanzano.
E allora chi te lo fa fare?, chiederete voi.
Tre cose almeno me lo fanno fare.
Primo: io sono l’orco che prende la principessa, e la principessa che gli carezza la barba, e sono Gesù e il suo boia, e Dio che l’abbandona, e il paggio che rincorre ed è rincorso, e sono il Drago e l’ustionato, e il Re morto e il traditore, e il Principe e il Teschio, e il tempo per me è l’onda che s’avanza, e non sai bene quando arriverà.
Secondo: io, quando finisco un libro, mi sento sempre una voce di una persona coi baffi e la pancia in lieve rilievo che dice Mettici uno stecchino in cima. E so che quella voce non sarà mai capace di dirmi Bravo, motivo per cui me ne vado alle otto e due minuti e lascio gli ultimi ventotto minuti sguarniti; perché quei ventotto minuti sono ventotto minuti d’amore, che ogni uomo colma come può.
Terzo: perché quando qualcuno guarda i miei castelli e dice Tutto facile per te, io posso guardarlo in faccia, sorridere e dire Ma va’ in mona.
Con piena cognizione di causa.
E poi tornare a guardare la piena e le sue acque, che mi piacciono pure.