Pubblichiamo un racconto inedito di Federico Starace, che allievo del Penelope Story Lab non è ma ci è stato segnalato come bravissimo da Amleto de Silva.
È un racconto pittoresco, ricco di verve e divertimento, di ciproxin e di banane nere, di eroina e confetti.
E leggendolo non abbiamo potuto che essere d’accordo.
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Molto probabilmente le vostre no, ma mia nonna si cacava il cazzo di cucinare.
“Nonna, ma chi deve venire a mangiare?”
”Ehhh, Giovanni coi figli piccoli…” alzava gli occhi al cielo per aprirsi una corsia preferenziale e aggiungeva, con voce metallica normale se fosse stata una smerigliatrice: “Mannaggia ‘o patatern!”, vibrando i pugni serrati.
Odiava quel momento e di rimando l’odiavamo noi. Quando tra cugini giocavamo in attesa che fosse pronto a tavola, in una stanzetta attigua alla cucina, lei all’improvviso entrava, ci pietrificava con lo sguardo e pronunciava terribile, con un tono ieratico che atterriva, l’unica locuzione in italiano perfetto che sapesse dire: “Basta! È giunta l’ora del desinare…” . In realtà questo era il verso di una canzoncina che le suorine di tanti anni fa cantavano ai bambini all’ora del pranzo, che mia nonna fece suo, usandolo con perfidia a scopo intimidatorio, dal momento che nulla la inteneriva. Anzi no, solo una cosa la inteneriva: Mario Merola. Solo il fragore dei paccheri ad ampio abbrivo del quale le inumidiva gli occhi. Fosse stato per lei la canzoncina delle suore avrebbe fatto così: “Andiamo a tavola bambini cari, che è giunta l’ora del desinare. E mo magnateve sti cunfietti!”
Cucinava come cucinavano tutte le nonne, come compito ineluttabile derivante dal matrimonio, ma lo faceva a modo suo, lo faceva senza amore. E io l’apprezzavo per questo, odiava quello che faceva e giustamente lo faceva una chiavica. Il pomodoro paesano? L’olio del cugino contadino? La frutta fresca? Il pesce pescato la mattina? Macché! Il compito di fare la spesa lo demandava a un mio zio perché questi conosceva un discount sito a ridosso di una famosissima piazza di spaccio di Torre Annunziata dove la roba te la buttavano letteralmente appresso, sia il supermercato che la piazza di spaccio. Penso fosse l’unica donna del sud Italia ad usare esclusivamente il concentrato di pomodoro in luogo delle conserve casalinghe, e io ricordo ancora con orrore quella specie di lombrico rosso, appena spremuto dal tubetto, sfrigolare disfacendosi nell’olio. Innaffiava, poi, i pranzi con un vinello scadentissimo e economicissimo, roba da 800 lire al litro nel summenzionato discount. Bevuto il quale vino, tutti i parenti, dopo pranzo, andavano a spegnersi sui divani del salotto e lì, avvelenati dall’etanolo, entravano in un singolare stato comatoso. Mia nonna, date le disposizioni alle figlie per rigovernare la cucina, entrava in salotto e alla vista delle vittime mietute si sedeva soddisfatta in poltrona, come un sacerdote di qualche setta streveza che avesse sacrificato a un demone babilonese i suoi adepti per trarne eterna, non giovinezza, non forza, ma soddisfazione, che per lei equivaleva a un aumento ponderale smisurato: “M’aggia fa ‘e quatt’ quintali”, commentava infatti al pensiero di un incipiente disgrazia per qualcuno. Si sedeva soddisfatta in poltrona, dicevo, prendeva il telecomando: “Che cazz amma fa cu sti sportivi! Io m’aggia verè ‘a puntata” ruggiva nel silenzio di quella Gehenna post prandiale, e subito, da “Quelli che il calcio” passava a Rete 4: Sentieri.
Essendo nonna, non poteva esimersi dal fare qualche dolce; ne faceva di un solo tipo, quello che lei chiamava asetticamente “il panettone”: una specie di plumcake fatto malissimo. Lo impastava con una violenza grossolana, facendovi cadere dentro i cilindri di cenere dell’MS che teneva sempre accesa in bocca, lo cucinava e, ancora caldo, lo congelava a sfregio, per poi scongelarlo dopo una stagionatura inspiegabile di un paio di mesi sotto 15 centimetri di brina, obbligandoci a mangiarlo.
Ci infliggeva, alla fine di tutti i pranzi, un’aranciata da arance prossime alla marcescenza, che era un argomento a favore della merda, da cui era impossibile sottrarsi: “Nonna, ma non la voglio l’aranciata!” “Mannaggia ‘a maronna, beviti st’aranciata che mi fanno male ancore ‘e braccia!”
Capitava, molto raramente, e solo al marito di mia zia, conosciuto dai più come “la molazza”, che apprezzasse la frutta marcia: una volta stava afferrando, per mangiarla, la quarta albicocca, che si vide spuntare le braccia di cuoio di mia nonna da dietro; gli sottrasse il piatto della frutta “E basta Ciro! Questa è scostumatezza”. Niente, nessuno doveva avere bene. Infatti quando faceva i piatti – che mò si dice impiattare, o forse si è sempre detto ma a saperlo erano solo i ricchi e i ricchioni -, quando faceva i piatti, dicevo, metteva una quantità di cibo inversamente proporzionale all’appetito del commensale a cui era destinato. Per esempio a mio zio, la molazza, faceva delle porzioni striminzite appunto perché gradiva tutto: a sfregio; a me, invece, che schifavo qualsiasi cosa mi venisse propinato in quella casa, faceva delle porzioni montuose: sempre a sfregio.
L’unica frutta buona erano le pere che si faceva un altro zio mio nel bagno, puntualmente la domenica a pranzo; infatti all’epoca pensavo che l’eroina andasse assunta a orari fissi, come il ciproxin. Un’ora, stava, chiuso in bagno, e quando ne usciva stravolto veniva assalito verbalmente dai cognati. “Mannaggia Gesù Cristo” li rintuzzava lui “tengo la sciorda, sta ancora ‘a mmerd int’o cess!”. Mentre mia nonna, incurante di tutto quel quadretto, la mascella serrata, mi indicava col braccio teso l’ultima cosa che mi toccava mangiare prima di potermi alzare da tavola: una banana nera come non ne ho mai più viste, marcia, acida, morta.
Tutto il cibo che circolava per quella casa era di quarta scelta e veniva stipato nel buio del ripostiglio, a stretto contatto con detersivi, DDT, scope e il violino di mio nonno, cui mia nonna aveva spezzato di proposito il manico per farlo entrare meglio sullo scaffale. “Nonna, caccio le mele?” “Non ti permettere, che pigliano di luce!”. Mò capisco, dovevano caricarsi di buio, di odio: una curiosa dinamica vampiresca. Come quell’esperimento che spesso le mogli degli avvocati che fanno yoga o le zoccole pubblicano su facebook: quello del riso conservato in due distinti barattoli; su uno si applica un etichetta con la scritta “amore”, sull’altro quella con la scritta “odio”. Dopo qualche settimana, il riso del barattolo con la scritta “amore” si trova in condizioni perfette, l’altro, quello dell’odio, sviluppa muffe e marcisce: una puttanata fisico quantistica colossale che però rende l’idea.
Io vengo dal paese di questa cazzo di Pizza a Metro, che ovunque sia capitato nella mia vita, alla mia risposta “Vico Equense” alla domanda “di dove sei?”, di rimando mi si è sempre chiesto “Vico Equense? Ma la Pizza a Metro ci sta ancora?”; vengo dal paese degli chef stellati, gli innovatori della cucina di questo cazzo. Mia nonna l’ha innovata la cucina, altro che cazzi, l’ha presa a paccheri e l’ha spogliata dell’ipocrisia cattolica della condivisione e della convivialità familiare, che sussiste solo fino a quando non si tratta di scipparne finanche i quadri da vicino ai muri quando i capostipiti stiano gradatamente raffreddandosi nel letto, buttando il sangue.
Vafammocca voi e l’amore per forza.
Ripeto: mia nonna ha innovato la cucina, mia nonna ha inventato la cucina dell’odio.