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PENELOPE STORY LAB
Scuola di scrittura

[Racconto inedito] Franco, di Giorgio Ghiselli.

Questo è il secondo racconto di Giorgio Ghiselli.

Il primo parlava di tennis, o forse no; qui siamo ancora nel rapporto col passato, o meglio, coi rapporti passati, e col significato che i rapporti passati hanno nel confronto coi rapporti, e gli incontri, presenti. Lo stile è mutuato da quello di Raffaello Baldini, che è delle sue terre – o lì vicino – e canta le sue terre – o quelle vicine; ma sta trovando la sua voce, che non è ancora questa ma non diciamoglielo, perché hai volte le cose che dice José Luis Moreno devono passare da Rockfeller, al punto che ti convinci che Moreno ha solo quella voce; e invece dagli un bicchiere di vino, e ti accorgi che no.

E, lo sapete già, questa è la cosa più bella che leggerete oggi.

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Quando ci siamo sposati, prima del taglio della torta e tutti a gridare “discorso… discorso” non mi è venuto in mente niente di memorabile, ho solo detto: grazie, sono felice di avervi qui, sono felice, poco di più, con il bicchiere in una mano e mia moglie di fianco, mio figlio in braccio a lei, mia figlia abbracciata a me e mia mamma appoggiata a mia moglie, pensavo fosse tutto lì, che non ci fosse niente da dire, e poi però di notte mi sono svegliato e mi sono detto: coglione, che c’è anche qualcun altro che me lo dice spesso ma questa è una storia che racconterò altrove, coglione, mi sono detto, come hai fatto a non pensarci? che c’era una cosa che dovevo dire: “voglio fare un brindisi a tre uomini, importanti, che sono nel mio cuore e che oggi non sono qui, ma che ci sono, uno è il mio babbo perché qui si sarebbe divertito un mondo anche se non poteva mangiare niente di quello che c’è e neanche bere, forse avrebbe ballato ancora una volta con la mamma, forse; l’altro è Massimo, che se non era per lui io Elisabeth nemmeno l’avrei conosciuta, e che stato l’unico a credere in me quando nemmeno io ci credevo, mi ha accompagnato negli anni con il suo fare da papà anche se eravamo quasi coetanei, e, da esempio sbagliato, mi ha insegnato che la vita non è solo lavoro, che lui sul lavoro ci è morto, e poi c’è Franco, perché questa è casa sua, e quella che ho sposato è sua figlia, e all’altare l’ho accompagnata io ma lui era lì anche lui”, ecco quello che avrei dovuto dire, questi tre uomini che non c’erano ma che c’erano, che se ne sono andati troppo presto e che ogni tanto vengono a trovarmi, mi parlano, che di mio babbo vi ho già raccontato, di Massimo qualche volta, ma di Franco no, mai.



Franco quando l’ho conosciuto, lui, aveva già smesso di parlare, non perché avesse problemi, proprio aveva deciso che tutto quello che aveva da dire con le parole, lui, l’aveva già detto, e così di punto in bianco aveva detto basta, solo qualche monosillabo, di tanto in tanto, soprattutto quando gli chiedevi: Franco vuoi ancora un po’ di vino? Sì! Ecco allora la sua voce la sentivi, ma la sua voce la sentivi guardandolo negli occhi, e quante cose avevano da raccontare quegli occhi, raccontavano di quando a scuola aveva indossato la camicia bianca quando tutti avevano quella nera ed era dovuto scappare nel cuore della notte lasciando tutto, di quando attraversava le alpi con la neve e il freddo per portare messaggi che significavano la vita e la morte per molti, storie che ho poi ritrovato in un libro nella sua libreria quando abbiamo fatto un po’ di ordine, “i Corrieri delle Rose” si intitola, i suoi occhi raccontavano anche delle tante vite che aveva aiutato a nascere, dei soprusi che non aveva voluto accettare e delle ingiustizie che non sopportava, dell’amore per quella diciottenne che gli aveva fatto lasciare la moglie (grazie, Franco, perché altrimenti io non mi sarei sposato); mi guardava con quegli occhi e sembrava che mi riconoscesse, che mi conoscesse, e mi sorrideva anche, con quegli occhi, ma anche con quel labbro un po’ storto nascosto dai baffi e quel sopracciglio un po’ increspato, mi guardava e sorrideva quando gli passavo le patatine di nascosto perché: basta Franco ne hai mangiate troppe, ma per lui non erano troppe, e per me cosa vuoi che fossero due in più?

Dopo un po’ aveva anche iniziato a parlare, solo con me, di quando era piccolo, delle vacanze al mare a Pinarella di Cervia qualche centinaio di metri più in là di dove sono nato io, e come si avvicinava qualcuno, di nuovo zitto.

Ecco cosa avrei voluto dire quel giorno, ma non mi è venuto in mente mentre dietro di me c’erano due arcobaleni che sembravano dipinti sul cielo nero, dopo sì, durante la notte quando mi sono svegliato e ho visto quei capelli rossi sparsi sul cuscino, e li guardavo per la prima volta da sposato, e mi è tornato in mente anche altre volte, proprio così, quel discorso.

E mi è venuto in mente anche questa sera mentre guidavo nella nebbia, scendendo da Panicale tra le curve, e Keith Jarrett suonava come solo lui sa fare, ed Elisabeth di fianco a me piangeva e io non so se facevo fatica a vedere le curve per la nebbia, per il Sagrantino o perché anche io piangevo, ed insieme tra quelle curve pensavamo a Franco, e lui era con noi, seduto lì dietro, il suo bicchiere di Sagrantino in mano, e noi eravamo felici.

©Giorgio Ghiselli

 

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