Ho divorato La casa delle madri di Daniele Petruccioli (nella dozzina finale al Premio Strega); ne sono stata risucchiata, stanza per stanza, un raggio improvviso di luce accecante e sghemba e una gora di buio dopo l’altra; di ogni cosa, di ogni persona, di ogni bestiola volevo sapere come sarebbe andata a finire, e dove; l’ho divorato una e due volte, tanto che forse sarebbe stato più giusto dire che è stato questo romanzo a divorare me, a risucchiarmi. E sia la prima sia la seconda volta un passaggio (è in fondo a pagina 67) mi si è presentato come una sorta di centro pulsante, tanto da sembrarmi un cuore:
[…] ma sotto sotto continuando a dare ragione agli scrittori e alle loro parole, perché un bacio della buonanotte mancato o qualche riflessione sopra il rammendo di un calzino marrone continuavano a sembrarle tutto sommato modi più risonanti di dire le stesse cose dei grandi pensatori – e […] a considerare il racconto, anziché parole al vento, forse l’unica azione umana veramente gratuita e perciò stesso libera, priva di recondite brame di potere: se tutti continuassero tutta la vita, si diceva, a mettere il raccontare e l’ascoltare sopra il resto, come fanno i bambini, forse saremmo finalmente salvi da noi stessi […].
Quando l’ho confessato all’autore, chiedendogli se la cosa lo stupisse – aver trovato una sorta di centro poco dopo le prime cinquanta pagine di un romanzo che ne ha quasi trecento ha stupito anche me – mi ha risposto di sì.
“Ma non perché tu abbia trovato centrale quel brano, o un altro, quanto perché secondo me questo non è un libro che ha un centro, anzi: è centrifugo” (ride) “e racconta di una serie di spinte centrifughe. Naturalmente sono molto legato a quel brano però non direi di aver costruito La casa delle madri per celebrare il racconto o la letteratura: al contrario, l’idea era raccontare l’impossibilità di trovare un centro, fosse anche questo.”
E allora continuiamo con lo stupore.
Ho guardato a lungo il testo, prima di leggerlo. Paragrafi lunghissimi, dialoghi pressoché centellinati, pagine compatte: la sua forma, insomma, intendo la sua forma visiva, mi si è presentata più come un saggio che come una narrazione; e questo ancor prima di entrare in parentesi e incisi innumerevoli, in frasi che tornano su sé stesse, in pause e rilanci.
“Daniele, perché questa scelta?”
“Non so se è un saggio, perché un saggio può essere anche molto netto, molto breve; anzi, oggi si insegna una scrittura saggistica il meno involuta possibile. Sicuramente ha una sintassi che si arrotola su sé stessa in maniera chiaramente voluta, e molto voluta. È nato dopo una serie di racconti scritti in modo molto diverso da questo; io mando rarissimamente a leggere le mie cose ma quelli erano finiti a una grossa casa editrice (prima uno, poi mi avevano chiesto anche gli altri; ma quando non si manifestò più ulteriore interesse la cosa cadde). Così mi sono detto ‘ora vorrei scrivere una cosa senza pensare alla sua leggibilità. Completamente illeggibile. Una cosa che rispecchi soltanto il mio modo di pensare, di ragionare’: anche se so che è, come dire?, un pasto un po’ pesante, tanto che lo consideravo veramente impubblicabile. Infatti non l’ho mandato a nessun editore, solo a Giuseppe Girimonti Greco (nostro, mio e tuo, amico e collega), a un altro amico poeta e a una terza persona, una mia amica che si occupa d’altro; proprio per sapere se anche per loro era completamente illeggibile o no. Era la primissima stesura, abbastanza diversa da questa: molto, molto più corposa. Volevo una persona del mestiere che però non si occupasse di pubblicazioni e di letteratura. Giuseppe, traduttore, poteva essere un’idea. A mia insaputa, invece, si è rivelato estremamente attivo nei circoli letterari di italianistica – cosa che ignoravo completamente – e siccome ha avuto la bontà di trovarlo non solo leggibile ma bello lo ha fatto un po’ girare. Da lì ho avuto una serie di riscontri positivi e alla fine ho deciso di chiudere e di lavorare con Terrarossa, perché Giovanni Turi è una persona che mi è piaciuta subito tantissimo. Però ecco, per rispondere alla tua domanda, volevo proprio scrivere senza preoccuparmi minimamente di chi mi leggesse ma soltanto del mio modo di ragionare.”
Già, tradurre (Daniele Petruccioli ha tradotto, finora e tra l’altro, Ndumiso Ngcobo, Mark Dunn, Anthony Cartwright, Lisa Gardner, Alain Mabanckou, Jean Clauzel, Philippe Djian, Tabajara Ruas, Dulce Maria Cardoso, José Luandino Vieira, Mia Couto, Ana Maria Peixe Dias, Inês Teixiera Do Rosario, Sabina Radeva, Tabajara Ruas Martins, Carol Bensimon e Annalena McAfee): quante volte ci hanno detto che il nostro è un lavoro solitario, e quante volte abbiamo dovuto spiegare che no, in quelle ore siamo tutto meno che soli, perché insieme a noi c’è sempre chi ha scritto il testo che portiamo nella nostra lingua…
“Chi c’era con te mentre scrivevi, per così dire, in una lingua soltanto?”
“Guarda, secondo me non è vero che quando traduciamo con noi c’è solamente chi ha scritto il testo di partenza. Ci sono un sacco di altre persone, perché c’è tutto il nostro portato, tutta la nostra lingua e anche tutta la letteratura che è stata scritta nella nostra lingua; c’è il nostro modo di viverla, c’è il nostro linguaggio, e c’è anche quando scrivi direttamente in italiano. Non l’ho detto io, naturalmente, ma gente molto più grande di me: si traduce sempre, magari non da una lingua all’altra. Per esempio, spesso, quando traduco persone a me care – e cui in parte mi sono ispirato per La casa delle madri – queste sono con me, con i loro linguaggi; ci sono quando uso lessici familiari, il mio idioletto, la mia temperie linguistica che adatto allo stile di quel che sto traducendo; ci sono, tantissimo, nelle mie scelte linguistiche, lessicali e sintattiche. Ci accompagna, sempre, tutto ciò che abbiamo fatto. Che scrivere si faccia da soli è un’illusione che si ha guardando da fuori. In realtà si dà voce a una vastità di persone e di personaggi: e quando dico scrivere intendo anche tradurre.”
E allora perdetevi con in questa casa in cui parlano anche muri e mattoni, gatti e topi, alberi e corpi, donne e uomini. Affacciatevi alle finestre e fidatevi, affidatevi, a questa epopea di madri, e di figli, nata e cresciuta in tanto gremita solitudine intorno a un centro che non c’è.
Forse.
Fiamma Lolli.
In foto: Daniele Petruccioli, foto ©Fiamma Lolli.
SCHEDA TECNICA.
Daniele Petruccioli, La casa delle madri
Terrarossa Edizioni, 2021
298 pagg., € 15,50