Tempo fa avevo uno studio che dava direttamente su un campo da tennis.
L’ho usato per buttare giù la bozza di un libro che, dissi, mi avrebbe preso un mesetto. Era l’aprile del 2012; al libro sto tuttora lavorando.
Non c’era connessione internet, in quell’appartamento – completamente vuoto, non fosse stato per giocattoli ammonticchiati in una camera dal parquet sollevato. Allora, quando la pressione della scrittura era troppa, leggevo (Il sentiero dei nidi di ragno lo lessi lì, nella camera ammonticchiata, coi piedi per aria e il culo nudo, girando pagina dopo pagina famelico di un Calvino che non avevo conosciuto e non avrei più ritrovato) oppure mi sedevo sul balcone a guardare le partite di tennis che ogni tanto si giocavano a qualche metro di distanza.
C’erano due persone, particolarmente brave a giocare e che non avrei più rivisto d’estate, che si trovavano sempre alla stessa ora, intorno alle 4, e iniziavano a scaldarsi. Erano un uomo e una donna. Non davano cenni di stare insieme, non si scambiavano un saluto, un incoraggiamento dopo un errore, una correzione. Avevano approssimativamente la stessa età – sulla quarantina, avrei detto.
Palleggiavano per circa quindici minuti; poi iniziavano a giocarsi un set. Sempre quello, che finisse 6-1 (raro) o 6-4. Lui teneva i punti; non c’era una contestazione che fosse una, nemmeno quando la pallina finiva appena al di qua della linea e veniva chiamato l’out.
Allora, quando veniva chiamato l’out, lui prendeva posizione appena accanto al centro del campo mentre lei si molleggiava sulle ginocchia poco fuori dal campo. Lui palleggiava una, due, tre volte; si colpiva il tacco con le corde della racchetta; palleggiava ancora una volta; piegava una gamba tenendone tesa un’altra, guardava il quadrato opposto, lanciava la palla in aria e con un gesto fluido e deciso puntava la palla col dito, la colpiva, emetteva un lieve Oh! di stupore e fatica.
Quando giocavo io, ci si metteva alla prova soprattutto sulla potenza o sulla velocità. I colpi erano quindi spesso sbilanciati nella forza, oppure miravano a cambiare di continuo traiettoria per insistere sulla resistenza dell’avversario. I due, invece, si scambiavano colpi continui sulla stessa direttrice. Lui la chiamava in causa sul diritto, lei rispondeva sul diritto; c’erano quattro o cinque scambi così, che stavano tutti a un metro circa dalla linea di fondo. Poi lui accarezzava appena la palla dandole un effetto smorzante; lei la intercettava e con un colpo in top-spin lo chiamava in causa sul rovescio. Lui girava l’impugnatura, si distendeva, ribadiva sul diritto di lei che prendeva coraggio e affondava il colpo in lungolinea. Lui aveva l’avambraccio coperto di una peluria fine; lei portava una coda di cavallo perché i capelli le avrebbero intralciato la visuale. L’uomo correva, prendeva la palla a un passo dal corridoio, incrociava il tiro; lei avanzava a rete, ogni tanto la prendeva, ogni tanto no.
Io li guardavo, il mento appoggiato alla ringhiera, gli avambracci anche. Non credo si siano mai avveduti di me. Quando finiva la partita andavano alle reciproche borse, prendevano un piccolo asciugamani, si strofinavano il volto; poi si scambiavano un bacio, leggero.
Nell’andare via, lui chiudeva il lucchetto.
Quando penso all’amore penso sempre a un campo da tennis a pochi metri dal mio sguardo.