Paolo Zerbinati è nato nel 1967 a Ferrara, ma in provincia di Mantova.
Ed è la prima di una delle varie incongruenze con cui mi sono trovato ad avere a che fare, quando Paolo mi ha contattato. La prima era una sorta di addomesticamento da maestri, per cui ripeteva altri stili, in un vociare giocoso che mi sembrava nascondesse altro.
Il nostro corso personale l’abbiamo passato quindi a decostruire quelle voci, allargare gli spazi, e trovare quell’altro.
Ora Paolo ha un testo importante, che mi auguro sviluppi in romanzo, da cui traggo questo 1976. I personaggi sono vivi, i ricordi sono presente, l’Emilia Romagna non è terreno di sola affezione ma anche infezione, sviluppo di destini, intralcio, trama.
E, lo sapete già, questa è la cosa più bella che leggerete oggi.
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Era d’estate a Ibiza, nel 1976. Indossava la maglia di Fabio Capello, anche se a lui il calcio non interessava, ma Monica gli aveva fatto quel regalo, ed era passato del tempo da allora, e lui ci teneva a quella maglia, a quel regalo. Ma ora Monica non c’era più, e in tutto quel tempo, dell’assenza di lei, aveva provato a farsene una ragione, ma di quella ragione non era mai riuscito a farsene una esperienza sufficiente e ragionevole. In fondo, di quella ragione, non sapeva che farsene.
Monica era stata la prima persona che aveva visto qualcosa di interessante in lui. A pensarci, a così tanti anni di distanza, anche se non erano poi così tanti, a guardare bene, non aveva capito nemmeno come o perché era cominciata. Non sapeva nemmeno se a lui Monica piaceva veramente; ma tutto, all’improvviso, era cominciato ed era avvenuto in un modo che si poteva considerare naturale, in un modo che lei aveva. E anche lì, su una spiaggia semivuota di Ibiza, di fianco a Lidia con la quale sta benissimo, sicuramente più bella di Monica, Lidia che il sole sempre addosso, ha sempre dentro l’antica morosa, che così com’era apparsa, se ne era andata.
Si era appassionato a lei, per la maniera con cui lei curiosava dentro di lui; e si era appassionato ai suoi capelli, a quel suo corpo con la camminata stralancata e l’incapacità di comprarsi dei reggiseni adatti. Aveva girato metà del centro, tra le tiendas, quella mattina, per quasi due ore, prima di venire in spiaggia, a cercare un bikini che le piacesse, qualcosa da portare in spiaggia, e lui si era sentito di starle dietro come un cagnolino, a vedersi ora, pensarsi ora, in quella passeggiata. Poi Filippo si era seduto a bere una birra, e nell’attesa che Lidia tornasse si era messo a parlare e a osservarsi con due tedesche, nel poco che sapeva di quella lingua, che portavano a spasso un cagnolino, e che si erano sedute di fianco a lui. Le ragazze indossavano camicie militari, sbottonate sul davanti, senza reggiseno, avevano le gambe nude. Quella più alta, di una magrezza nazista, indossava un paio di zoccoli, l’altra invece portava delle espadrillas sfilacciate.
Nell’attesa che tornasse Lidia, che poi era davvero tornata, aveva fatto in tempo capire che la sera prima erano andate all’Amnesia e in moto si erano trasferite sulla spiaggia a finir lì la notte. Filippo avrebbe voluto chiedere dove avevano tenuto il cagnolino, ma la sua lingua e i suoi gesti non erano stati sufficienti a far comprendere la domanda, la cui risposta, se ci fosse stata, avrebbe comunque potuto non capire.
Aveva avuto anche modo di ripensare al tempo in cui stava con Monica.
Non era brutta, Monica, si era sempre detto. Abitualmente si incontravano di pomeriggio, dopo la scuola di lei, al bar della stazione, dove aveva questi amici che lui giudicava piuttosto scombinati, anche rispetto a lui, lui che aveva questa passione per i motorini truccati e che finiva a masturbarsi nei bagni dello stesso bar, dopo che Monica gli aveva dato anche solo un bacio sulla guancia e lo aveva tenuto per mano mentre parlava di chissà che, qualcosa che ora a pensarci non gli veniva in mente, una specie di brodo di parole, senza significato, il cui senso veniva dato solo dalla loro vicinanza corporea e da come le loro voci si mescolavano nel brusio di quei finti pomeriggi da bar. Lei masticava cingomme con evidente ostinazione, cingomme che non sapeva far esplodere, e quella volta che lui l’aveva presa in giro per quello, lei si era tolta la cingomma di bocca e in punta di dita, le unghie sporche di non si sa che cosa, gliela aveva mostrata, umida e compatta, dicendogli Prova tu se ci riesci, e Filippo aveva titubato a fare quello; a distanza di tempo era certamente un qualche tipo di segnale da cogliere, e alla fine – ancora rimuginando nel nulla pensieri che non arrivavano – l’aveva presa e se l’era messa in bocca e dopo aver masticato ancora un po’ usando la lingua e un soffio potente e ben mirato, era riuscito a fare una bolla importante e lei aveva cominciato a ridere, poi lo aveva preso per mano e gli aveva detto, Vieni a casa mia, oggi mia sorella non c’è.
©Paolo Zerbinati
Foto di Luigi Ghirri