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PENELOPE STORY LAB
Scuola di scrittura

racconto inedito

[Racconto inedito] Cinque.

Pubblichiamo un racconto inedito di Fiamma Lolli, allieva – romana trapiantata a Livorno – del Penelope Story Lab.
Leggendolo si vede un lieve declinare verso il basso, una sorta di piano inclinato che porta i personaggi di questa storia a cadere, sempre più a fondo; finché, nella comprensione, cade anche il lettore.

Lo abbiamo trovato molto bello, ve lo proponiamo così.

Sono alta, rossa naturale e non ho tempo per me, mai avuto.

Ho sedici anni, mia madre trentadue e mia nonna cinquanta. Mio padre non l’ho conosciuto.

Sono figlia unica di figli unici che avrebbero voluto un maschio.

Mi piace andare a scuola, anche se mi prendono in giro perché, dicono, sono scema; “Valentina-la-lentina”, mi dicono, ma non è vero, magari ci metto più degli altri ma alla fine capisco tutto, e pure meglio.

Dove sono nata e cresciuta la gente è chiusa, le porte delle case sono chiuse, le finestre sono chiuse e da lì dietro ti guardano tutti, in continuazione.

Ho smesso presto di studiare, c’era da badare al negozio, alla casa – mia madre era sempre malata ed è morta presto – e ai cani. Guai se non hanno da bere, da mangiare, mio nonno ci tiene più che a me. Lui e suo fratello li trattano come dei re, per loro sempre il meglio, per me figuriamoci.

Mi piacerebbero dei vestiti nuovi, non dico all’ultima moda ma almeno non fatti in casa da mia nonna che è anche brava a cucire, ma non ha occhio. D’inverno sembra che mi abbiano messo addosso un copridivano e d’estate che sia rimasta impigliata nei fili del bucato: “un abitino semplice”, lo chiama. A me sembra un lenzuolo buttato addosso alla bell’e meglio, così, come capita.

La prima volta avrei voluto dirlo a mia sorella o a mio fratello grande: ci avrebbero pensato loro a metterli a posto. Ma non ho nessuna sorella, nessun fratello. Dovevo fare da me. Ho provato a reagire ma non ci sono riuscita.

Un giorno mi sono truccata, non l’avessi mai fatto. Hanno cominciato a dire che mi volevo mettere in mostra, “il mostro in mostra” dicevano, lo ripetevano in coro gridando, prima in due, poi in sei, in dieci, a me alla fine girava la testa così sono caduta e mi sono strappata la maglia. A casa è scoppiato un bordello, “non puoi più uscire da sola, è questo che vuoi?”, e più piangevo peggio era. Poi ho ricominciato ad andare a scuola da sola ma non era più la stessa cosa.

Ho cominciato presto a capire che se volevo respirare dovevo allontanarmi più che potevo e a quel punto ho cominciato a farlo. Un giorno mezz’ora, un giorno un’ora, il giorno dopo niente ma tre giorni dopo, finito di cenare, scavalcavo la finestra e fino a mezzanotte non tornavo.

Non è che volessi fare niente di speciale; andare in piazzetta, guardare gli altri che si divertivano – avevano tutto, loro: motorini, sigarette, rossetto, tutto – e magari un giorno farlo pure io. “Prima o poi toccherà anche a me”, mi dicevo. Ma il prima non arrivava mai e il poi, oh, sempre lì tra i piedi.

Un pomeriggio sono arrivata al super e ho rubato un lucidalabbra. Avevo una paura bestia – che mi scoprissero, che mi picchiassero, che chiamassero a casa – invece è andato tutto bene, al primo colpo. Lo sentivo nella tasca rimbalzarmi contro la coscia a ogni passo e mi pareva di essere più grande.

Le mestruazioni mi erano venute all’improvviso e non ero riuscita a lavare il sangue. Mia madre avrebbe attaccato con la solfa che un maschio certi problemi non li dà. Ora dovevo riuscire a buttare via la gonna senza farmene accorgere.

Pensavo che dopo quella volta che si erano sfogati mi avrebbero lasciata in pace, invece non gli era bastato. Forse hanno ragione a dire che sono lenta, dopotutto.

Quando ho trovato Gianluca, il più bello del paese, che mi aspettava sotto la finestra in macchina col motore acceso non ci ho pensato su troppo, perché certe cose nella vita non capitano due volte, a me no di certo, e sono andata. Non vedevo l’ora che mi baciasse.

Una sera al negozio ho fatto tardi, per colpa di un cretino che non si sapeva decidere tra un cotechino e uno zampone. Quando sono arrivata a casa a piedi (mio padre era andato via prima; era la sua serata di biliardo al circolo) i cani abbaiavano come se li avessero spellati vivi. Quando sono entrata in cantina per prendere le ballette del loro cibo speciale c’erano già mio nonno e suo fratello e mi hanno dato la lezione che mi meritavo. Tutti e due.

Ormai rubavo in continuazione, ero bravissima. Piccole cose: orecchini, foulard, profumi. Ma quando ho provato a prendermi la cintura con le borchie il vigilante mi ha stretta da dietro e ha sibilato: “Stiamo per chiudere, se mi aspetti sul retro ci mettiamo d’accordo”. E che potevo fare?

La notte, mentre mia madre e mio padre dormivano, sono scesa in pantofole e in punta di piedi a buttare la gonna macchiata, ma avevano spostato il cassonetto per dei lavori e sono dovuta andare fino in fondo alla strada, dove c’è il parcheggio.

Prima sono venuti in due, poi si è aggiunto quello grosso. Aspettavo anche tutti gli altri ma non sono arrivati. Quando hanno cominciato a farmi male davvero ho iniziato a gridare ma a quel punto mi hanno ficcato qualcosa in bocca e non ho gridato più: cioè, io gridavo, ma non si sentiva niente. E nemmeno si vedeva, perché eravamo dietro il muro dell’asilo, che a quell’ora era chiuso.

Quando sono scesa dall’auto di Gianluca ho visto Vittorio, e Alberto, e Marco. Poi hanno cominciato a strapparmi tutto di dosso e non ho visto più niente.

Mi chiamavo Paola, avevo vent’anni ed ero ancora viva.

Ero Giada, e avevo avuto paura che il vigilante mi denunciasse. Sarebbe stato meglio.

È uscito dall’ombra tra le auto: mi ha chiamata per nome – “Lucia!” – quindi mi conosceva. Chissà chi era. So solo che aveva un coltello e che dopo ha usato anche quello.

Sono Valentina, e a morire ci ho messo poco.

Vedo solo sangue, adesso. E terra, e cartacce, e la medaglietta con su inciso “Vita”.

Era il mio nome.

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