Stefania Rigon (Vicenza, 1983) è corsista del Penelope Story Lab, quando ancora non era tale, dal 2017. Si presentò al corso in presenza a Verona con una mole enorme di cose da dire, una mole enorme di cose che pensava di voler tacere, racconti buttati giù con furia e il tentativo di trovare i nessi logici.
Ora, dopo alcuni corsi – fra questi, Fitzcarraldo di Amleto de Silva che continuerà in Psicologia del personaggio, il precedente del Corso INTENSIVO di scrittura, e Scrivere l’infanzia -, mi sento di dire che Stefania ha una mole enorme di cose da dire, una mole enorme di cose che vanno dette e altre che vanno taciute, e la capacità di capire la differenza; e la capacità, come in Dio?, che qui presentiamo la prima volta, di trovarli e bene, quei benedetti nessi logici.
E questo racconto, ovviamente, è la cosa più bella che leggerete oggi.
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Buongiorno, direttore,
oggi sono entrati tre lotti di abete bianco della Macedonia sud orientale. I restanti scarichi di questa settimana prevedono due lotti di noce dell’Iran e un lotto di ciliegio della nostra Puglia. Confermo quanto già riportato nei precedenti resoconti: il fornitore scelto rimane il migliore del settore per qualità della materia prima e puntualità nella consegna.
Cordiali saluti,
Silvano Margese
CQ
Quando ero ancora magazziniere, Giovanni è venuto a dirmi che si licenziava; me l’ha detto così, mentre mangiava il suo solito panino con il tonno e la maionese usciva dai bordi; mi stupisco non gli sia ancora cresciuta una pinna sulla schiena.
Giovanni era al controllo qualità da vent’anni e da altrettanti pranzava con un panino tonno e maionese; era stato lui a mettere a punto il foglio E/U: entra in magazzino tot merce per tot peso, esce dal magazzino tot merce per tot peso. Numeri in fila su colonne delimitate da righe nere. Quando mi hanno messo al suo posto, ho usato anche io i fogli E/U ma avanzava troppo bianco in quelle pagine.
Ho cominciato a riempire i fogli di annotazioni personali: entrati 4 pallet di faggio trentino in listelle 5×5 – Marilù, ce l’hai ancora quel vestito verde che ti stava largo, vero? Mi dicevi che il lino era la tua fibra preferita. Eravamo in montagna a camminare, ti ricordi il profumo del bosco?
Uscite 3 casse di scarti di betulla bianca – Marilù; e quel dicembre su in altopiano? Per poco non ci intossicavamo con il fumo della stufa, buttasti troppi trucioli. Me ne sono accorto e ho aperto subito la finestra; la betulla del giardino sembrava volesse entrare in casa per ripararsi dal freddo che c’era fuori.
Poi mettevo tutto nel primo cassetto della scrivania dentro ad un faldone rosso con su scritto Bollette e DDT; ero sicuro nessuno ci avrebbe mai guardato dentro.
Marilù era grassa ed elegante e amava i vestiti di lino e la birra rossa. Marilù era cieca.
Che cosa sia successo non lo so, sta di fatto che sono entrato in casa, dopo il lavoro, e lei non c’era; sono sceso in taverna dove ascoltava la musica e lei non c’era, lo stereo era spento; allora mi sono detto «sicuramente sta riposando», e sono andato in camera e l’ho trovata stesa sul letto, immobile, con su la vestaglia azzurra e le pantofoline, le mani incrociate sopra alla pancia, le gambe dritte.
La stanza era in penombra e le tende tirate, l’abat-jour del mio comodino accesa.
Sembrava come tutto disegnato su un foglio.
«Ci vedo» mi disse con un filo di voce, «ci vedo, Silvano».
Aveva gli occhi ben aperti, ma le pupille erano immobili come sempre, bloccate al centro dell’occhio come se fossero costrette in una gabbia invisibile.
«Non so dove sono», disse tenendo lo sguardo fisso verso il soffitto, «è questa casa nostra?».
Abitavamo lì da undici anni, si era sempre mossa come se ci vedesse, conosceva ogni scalino, ogni angolo sporgente, l’altezza di tutti i tavolini e dei divani, ma in quel momento era persa.
Provai a dirle «Sì, è questa, amore. L’ho arredata io seguendo i tuoi ricordi: il letto grande quanto un campo da calcio, l’armadio profondo come quello dove ti nascondevi da bambina prima dell’incidente, la cucina rossa con il ripiano di formica come quella di tua nonna Gemma», e invece non mi uscì una parola. Spingevo il fiato dalla gola verso le labbra aperte, ma niente.
Persi l’uso della parola quando Marilù ricominciò a vedere, i dottori non trovarono nessuna spiegazione scientifica, il neurochirurgo mi propose di operarmi al cervello ma io rifiutai.
Marilù non riusciva più a stare in casa, sbatteva ovunque, le cose le cadevano dalle mani che sembravano foderate di burro, non ricordava dove fossero le sue scarpe, i cappotti, continuava a volere stare fuori, in giardino, sotto l’acero canadese. Io le lasciavo biglietti ovunque, avevo perfino disegnato una mappa della casa con tutte le indicazioni che le servivano. Ma non servirono.
Se ne andò una mattina presto, scrisse dietro a uno dei miei biglietti: Ciao, Silvano. Devo andare a vedere cosa c’è fuori. Grazie per tutto quello che hai fatto per me, Marilù.
La lasciai andare.
Ho perso la mia voce quando Marilù ha ricominciato a vedere; in fabbrica nessuno si è accorto di niente, sono sempre da solo nel mio ufficio di plastica trasparente appeso al soffitto del capannone, guardo muletti e bancali e scrivo. Ho raccolto tutti i fogli E/U nascosti nel faldone rosso e ne ho fatto un libro; l’ho regalato al mio direttore e poi ho rassegnato le dimissioni.
Il direttore è venuto a casa mia due giorni fa e mi ha detto che non immaginava, non aveva capito; è una persona buona anche se non paga gli straordinari.
«Posso fare qualcosa per lei, Silvano?»
Risposi no scuotendo la testa.
«Conosco degli specialisti, ne abbiamo passate tante con mia figlia».
Lo ringraziai abbassando lo sguardo e portandomi una mano al petto ma poi, di nuovo, scossi la testa.
«Non può vivere così, Silvano. Come fa se le succede qualcosa?».
Guardai in alto e unii i palmi delle mani.
«Dio?».
Sì, gli dissi con la testa.
«Lei ci crede?».
Sì, gli dissi di nuovo con la testa.
«Deve aver capito qualcosa che io non ho capito», aggiunse sospirando e rimettendosi il cappello che aveva tenuto in mano per tutto il tempo.
Alzai le spalle.
«Arrivederci, signor Silvano. Mi stia bene».
Ci stringemmo la mano e chiusi la porta.
Il giardino era un tripudio di colori, l’erba verdissima, piccole margherite bianche e fiorellini blu puntinavano il manto, l’acero canadese era carico di foglie rosse e arancioni, e il profumo delle violette cresciute nella sua ombra era fortissimo. Mi sedetti con le spalle appoggiate al tronco rugoso, l’aria era fresca e l’erba un po’ umida, chiusi gli occhi e mi addormentai.
©Stefania Rigon
Photo credits: Robert and Mary Frank in New York City. 1950. Elliott Erwitt/Magnum Photos, via Robert Koch Gallery