Questo racconto di Giorgio Ghiselli, allievo del Penelope Story Lab, è stato scritto durante un corso che non ricordo – forse Popolare l’immaginario, mi pare fosse quello.
Mi ha subito colpito, durante la lettura, un paio di aspetti che nei racconti brevi attirano la mia attenzione: l’eleganza, il respiro, la ferocia, il finale. Per me in un racconto breve un finale che finisce, spesso, ammoscia la narrazione: mi piace quando si sente il gong durante le ultime parole, e la piattaforma vibra a lungo.
Ci sarebbe poi altro da dire su questo racconto (il nome Marco è giusto? Come si vede se un nome è giusto? Ed è vero che il protagonista odia il calcio? Ha fatto bene l’autore a parlare di calcio quando poi l’argomento è il tennis, o è semplicemente una scoria strutturale della sua narrazione?), ma su questo faccio riflettere voi.
Intanto Giorgio (Cervia, 1964) ha scritto un gran bel racconto, e ve lo lascio qui.
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Io sono Marco e odio il calcio.
Il calcio e il tennis. Mio papà era un calciatore semi professionista con buoni risultati e grande tecnica. Avrebbe potuto fare una discreta carriera, ma il suo egoismo e la sua voglia di fare il minimo indispensabile, sempre, ha prevalso sulle lusinghe di qualche squadra importante. È stato anche maestro di tennis. Ha provato per anni a convincermi, ma io la racchetta in mano proprio no, non la volevo prendere. Per deluderlo negli anni ho fatto di tutto, tutti gli sport tranne quei due, cambiando ogni volta che lui provava ad avvicinarsi. Questo balletto è andato avanti fino a quando per l’età ha dovuto smettere prima con il calcio e poi anche con le lezioni. È passata solo qualche settimana perché io attraversassi il ponte per aprire la porta di Osvaldo e comprassi la mia prima racchetta. Una Head in grafite, leggerissima, nera e grigia con il piatto leggermente più grande del normale. Ricordo di aver scelto le corde gialle della Babolat, anche se me le avevano sconsigliate, perché per me tra estetica e funzionalità proprio non c’è gara. L’impugnatura, calibrata per me, era avvolta da un grip rosa shocking che mi faceva sentire tanto figo. Tornando a casa lungo il canale, con la mia custodia a tracolla, guardavo il muretto del canale pensando a quando mi aveva portato li, tra le barche ormeggiate con la mia prima canna da pesca e la scatolina di lombrichi raccolti in giardino tra i fiori della mamma. Ero così felice di poter passare del tempo con lui, senza mia sorella, senza la mamma, senza i suoi amici. Che sorpresa quando dopo pochi lanci l’amo si è aggrappato e io, smanettando sul mulinello rischiando di strappare la lenza, ho portato alla superficie fuori dall’acqua torbida e piena di macchie di olio del porto una trappola per le anguille. Uno sguardo d’intesa e l’abbiamo svuotata nei nostri secchi per poi tornare a casa ridendo e imitando quelli che sarebbero stati i commenti della mamma. Eravamo io e lui, solo noi due, prima che sparisse tutto, prima che smettessi di aspettarlo senza ricordarmi il perché.
Mi ha visto arrivare a casa con in mano quella busta dalla forma inequivocabile, argentata con l’arco rosso disegnato, e ho letto tutta la sua delusione nello sguardo. Quella sera la cena si è consumata nel silenzio, sentivo solamente gli occhi della mamma bruciarmi la pelle, mentre i miei cercavano di unire i pezzi di carota del minestrone come in un gioco della Settimana Enigmistica. Lei era sempre incomprensibilmente dalla sua parte, a prescindere. Legata a lui da qualcosa che non si spiega, non per come negli anni è stata relegata in quel ruolo di mamma frustrata e tradita e nulla più. Con me parlava poco, bastava un suo sguardo per far capire cosa avessi sbagliato, cosa dovessi fare per rimediare e come chiedere scusa. Uno sguardo solamente, proprio quello che stavo evitando quella sera.
Da quel giorno ho iniziato a palleggiare un po’ con Gianni, l’unico del gruppo che un po’ ci sapeva fare, e man mano che le settimane passavano ci ho preso sempre più gusto, tanto che sono arrivato a giocare a ritmi maniacali: tutte le mattine dalle cinque alle sette, prima di andare a scuola. Non mi perdevo nemmeno un incontro dello Slam in televisione: Lendl, Wilander, Edberg, ma sempre con il telecomando in mano pronto a cambiare canale se si affacciava in salotto. Una mattina, era autunno inoltrato e me lo ricordo bene perché il campo, specialmente nell’angolo dove c’era la canna dell’acqua era pieno di aghi di pino e appena finito di giocare mi sono infilato la tuta per non prendere freddo, quella mattina, passando lo straccio per eliminare i segni sul campo alla fine delle mie due ore, l’ho visto. Nascosto dietro un pino, piangeva. L’ho guardato andarsene senza che i nostri occhi si trovassero, con la testa incassata tra le spalle piegate e rassegnate, i capelli che solo in quel momento vedevo così bianchi. Non l’ho chiamato, non l’ho rincorso. Sono rimasto in silenzio, con la corda aggrappata alla mano e la terra rossa che si stava seccando sulle tibie e mi sono sentito una merda.
©Giorgio Ghiselli
In foto: Mats Wilander.