Luca Bonacina (Lecco, 1972) è un diesel d’inverno. In classe (ha seguito tra le altre cose il corrispettivo offline del Corso intensivo di scrittura, e ora Autobiografia comica con Amleto de Silva) chiede, prende appunti, pensa, interroga e si interroga; sono quei cinque chilometri in cui speri che la macchina non incontri salite, perché sai che non ce la farà.
Ma poi al sesto prende coraggio, e velocità; e quando prendi coraggio e velocità, nella vita, te la dimentichi, la velocità, e mentre la strada corre butti un occhio alle strade che sembrano Ghirri, agli aironi lungo i fossi, a tutto quello che hai dentro e risuona col fuori. Qui, in questo delizioso racconto che di culinario ha poco e cucina tanta, Luca risuona col fuori.
Perché quando Luca prende coraggio e velocità, questo fa; e di solito comincia con una frase secca e netta, uno scarto, come “A mia madre non è mai fregato un cazzo di cucinare”.
Sì, tipo così.
E questo suo racconto è la cosa più bella che leggerete oggi.
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A mia madre non è mai fregato un cazzo di cucinare: i miei figli non sanno quanto sono fortunati, lo capiranno crescendo.
Prima di sposarsi era impiegata nella più grande azienda del paese, lo ricorda ancora con orgoglio, erano gli Anni Sessanta: la immagino, biondina e minuta, stretta nel cappotto rosso, attraversare la piazza della chiesa per andare in ufficio sotto lo sguardo degli operai fermi ai cancelli in attesa della sirena. Conobbe mio padre al lago, si sposarono nel 1970, due anni dopo nacqui io. Col marito e due figli maschi cui stare dietro, mia nonna chiarì subito che non poteva accudirmi.
Mia madre fu costretta a mollare il lavoro.
L’unico piatto dell’infanzia che mi fa ancora venire l’acquolina in bocca sono le lasagne, quelle della nonna: assistevo spesso alla preparazione, provavo a stendere i fogli di pasta, passavo il cucchiaio di legno nella pentola e assaggiavo il ragù, la aiutavo a preparare gli strati. Ce le portava ancora calde la domenica a pranzo, mio padre ringraziava con lo sguardo, mai una parola, mia madre distribuiva le porzioni tenendo la paletta per la punta del manico, volendola quasi allontanare da sé.
Ricordo con dolore i pranzi ai tempi delle elementari. Tutti mi chiamavano “Paolino”, il dottore aveva consigliato a mia madre di farmi mangiare più proteine. Lei scelse le bistecche di manzo, non ha mai amato agnello e maiale, qualche volta il petto di pollo.
“Mangia la bistecchina, da bravo!”, mi diceva dall’altra parte del tavolo, mentre quadrava la contabilità di famiglia sul suo quadernetto rosso. Masticavo con fatica quella cosa asciutta e gommosa, spesso non la finivo, mia madre urlava, ricordo bene le sue urla che sapevano della frustrazione di chi cucina per dovere perché odia farlo, odia tutte le faccende di casa, e io sentivo il peso della colpa e stavo male e non volevo farla star male, così facevo la scarpetta con il burro fuso in cui era più che rosolata la carne e ingoiavo il boccone di pane.
Poi qualcuno le suggerì di propormi il pesce. E ogni volta era una tortura: stracotto al forno nella pirofila d’acciaio, praticamente bollito in una quantità eccessiva d’acqua, un controsenso culinario, quando posava nel piatto la mia porzione, la lisca centrale si spezzava a metà ogni volta. Mi specchiavo nell’occhio bianco spento orlato di grigio di quella trota, mi sentivo molle come la cipolla o il sedano aggiunti per dare sapore, in teoria, perché la buona intenzione galleggiava tra le gocce di grasso nel liquido di cottura: riempirei un bidone della spazzatura con certe teorie di mia madre.
Quella di moda negli anni successivi la chiamavo “assioma delle tre p”: pasta, pizza, patate, servite spesso in drammatica sequenza. L’unico vantaggio fu di conoscere le penne all’arrabbiata e tricolore, le linguine allo scoglio e i bucatini all’amatriciana: tra le buste di surgelati del supermercato erano quelle preferite da mia madre, le trovavo sulla tavola apparecchiata solo per me, alle due del pomeriggio, di ritorno dal liceo. Lei pranzava prima, a mezzogiorno, ha sempre avuto una speciale mania per gli orari dei pasti, i suoi, poi mi attendeva sul divano, sonnecchiante sotto la copertina di lana mentre guardava l’ennesima puntata di Beautiful oppure concentrata sui dare e avere degli estratti conto della banca.
“È già tutto pronto, devi solo riscaldare”, mi diceva, io ubbidivo, così stava tranquilla.
Mangiati i carboidrati, per la fame consumati a volte nemmeno tiepidi, cuocevo di nascosto un uovo all’occhio di bue o aprivo una scatoletta di tonno. Mia madre, in salotto, se ne accorse di rado.
Arrivai a sfiorare i 100 chili. Ma avevo smesso di giocare a calcio, e quella era la causa, un po’ stizzita mia madre lo spiegava alle vicine di casa curiose. Avevo 18 anni, fossi stato alto uno e novanta sarebbe stato trascurabile, per me, che non arrivavo al metro e settanta, fu un dramma.
Mi misi a dieta. Al telefono il medico chiese che venisse anche mia madre. “La cuoca di casa”, disse, sobbalzai a quel sostantivo. Nello studio, fermo nella vergogna del mio corpo nudo, mi misurò e pesò, lesse le analisi del sangue, infine stampò i menù dei miei pasti. Mia madre ascoltò con attenzione, fece un paio di domande.
Nei primi giorni osservò le indicazioni con rigore, persi cinque chili. Poi iniziò a stimare a occhio i cinquanta grammi di pasta concessi, a propormi il martedì le zucchine del venerdì, a sostituire col riso la pasta, finita senza che la ricomprasse.
Dopo tre settimane mollò.
Luca Bonacina