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PENELOPE STORY LAB
Scuola di scrittura

[Racconto inedito] La cura, di Giovanni Battista Menzani.

Giovanni Battista Menzani l’ho conosciuto in due occasioni.

In un caso, ho tenuto un corso di scrittura della fiaba in un paesino nel piacentino, e lui era lì, non ho mai capito se nelle vesti di organizzatore o di partecipante, ma credo di entrambi.

E non è comune vedere a un corso uno scrittore; perché in realtà sapevo che aveva pubblicato un libro di racconti incredibile – e con incredibile intendo: bomba -, uscito per LiberAria nel 2013, intitolato L’odore della plastica bruciata.

Mi sfugge, seriamente, il motivo per cui quel libro non abbia circolato quanto meritava. Però mi piace il fatto di averlo chiamato, avergli detto: Ci dai un racconto?, e che abbia detto di sì.

Così lo leggete, ordinate il libro che ha dieci anni, o il più recente Comportati da uomo; e vi fate un regalo, a qualche giorno dal mio, di compleanno.

Ah, dimenticavo. Ovviamente, questa è la cosa più bella che leggerete oggi.

IP

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La situazione è seria, dice il dottore mentre il suo volto si rabbuia ad arte. Molto seria.

Il vecchio lo osserva impaurito. È seduto sul bordo della barella, e indossa solo un paio di mutande logore e i calzini bianchi di spugna, che gli coprono a malapena le caviglie. Trema.

Ho freddo, dice.

Si rivesta, dice il dottore indicando le cose dell’uomo ammucchiate su una sedia. Poi estrae una radiografia da una busta gialla appoggiata sul suo scrittoio per protenderla verso l’oblò affacciato sul cavedio interno dell’ospedale. La sventola minaccioso, poi dice: No, non andiamo bene. Non andiamo bene per niente.

Sentendosi in colpa, il vecchio non osa aprire bocca. Quell’altro ha un’aria così grave che è dispiaciuto più per lui, per quel giovane medico dal petto in fuori e dal portamento un po’ troppo elegante, che per se stesso. È quasi come se stessero parlando dello stato di salute del dottore e non del suo.

Con chi posso parlare?, chiede il medico senza distogliere lo sguardo dai ciuffi di peli biancastri disseminati sul torace rinsecchito del paziente, dalle vene sporgenti che solcano il suo corpo quasi esangue in modo altrettanto casuale, dai muscoli flosci che gli allungano le braccia in modo innaturale. Lo fanno sembrare una marionetta.

Parli con me, dice il vecchio.

È venuto solo?

Certo che no, dice il vecchio mentre con il mento indica la sua carrozzella, parcheggiata in mezzo al corridoio.

E chi l’ha accompagnata?

Ci sono io, dice la donna.

Il vecchio abbassa gli occhi sul pavimento in linoleum tirato a lucido. Mio figlio non è potuto venire, sussurra. Sa, è sempre molto impegnato con il lavoro, adesso che ha avuto la promozione in azienda. Bisogna capirlo. Prende il doppio dello stipendio di prima. Eravamo d’accordo che passava alle sei sotto casa, stamattina, con la Mercedes nuova. Ma ieri sera – o ieri notte, non ricordo con esattezza, io mi ero addormentato da un pezzo – ieri sera ha chiamato per dirmi che gli dispiaceva molto, ma i suoi piani erano improvvisamente cambiati, doveva ripartire con urgenza per un sopralluogo al sud.

Sì, sì, taglia corto il dottore. Adesso non mi racconti tutto. Quindi chi c’è?

Ci sono io, strilla la signora che è apparsa sulla soglia della stanza. Ha una vestaglia a fiori, nei colori più accesi, di quelle che si trovano solo sui banchi dei mercati dei piccoli paesi di collina. Evidentemente era appena dietro la porta a origliare, e dunque adesso aveva deciso di farsi avanti, aiutandosi con un bastone dalla vistosa impugnatura di ottone.

Lei chi è?

Sono la moglie.

Piacere di conoscerla, signora.

Siamo sposati da cinquant’anni. O anche qualcosa di più. Poco importa. È una vita, comunque.

Una vita, ripete il dottore con aria enfatica.

Era il 21 marzo del 1969. Il primo giorno di primavera: non posso dimenticarmene. Dopo la cerimonia siamo andati a mangiare al salone dell’oratorio. Mica c’erano i soldi per andare al ristorante, a quei tempi. Dicono sempre: il boom economico. Mi fanno ridere. Per quelli là, forse, dice la donna indicando a casaccio, nel vuoto della stanza. Ecco, guardi un po’ qui, dice ancora estraendo dal borsellino una manciata di vecchie fotografie ingiallite e sgualcite sui bordi. Qui siamo in viaggio di nozze. A zonzo sulle Alpi con una Fiat Cinquecento, avevamo messo la valigia sul portapacchi, in alto. Ecco: questo è il Passo Pordoi. Quest’altro è il Sella. E questa è una veduta della val Gardena.

Il dottore prende in mano le fotografie e le sfoglia distrattamente. Un puro gesto di cortesia.

No, quello non c’entra. Quello è il nostro gatto.

Mmmh, sbuffa l’uomo.

Caro dottore, vuole un consiglio? Dovrebbe almeno fingere interesse. Vi dovrebbero interessare, le vite dei vostri pazienti.

Come no. Sapesse cosa mi tocca sentire tutti i giorni.

Nel frattempo, il vecchio sta scrollando la testa. Si è infilato la camicia di flanella e il golfino a rombi in cashmere che suo figlio gli ha regalato per un compleanno, lui lo mette solo nelle occasioni speciali. Sulle gambe ha ancora una coperta. Sembra dire: la solita impertinente. Eccola che mette su il suo show. Ecco che fa casino.

Insomma, io con chi parlo?, chiede il dottore riprendendo il filo del discorso.

Sono qui, dice la moglie.

Lui la squadra. Nota solo adesso il busto per la schiena che le sporge dal foulard.

Crede che io non sia in grado di capire?, chiede la donna. Ho settantasei anni, ma sono ancora nel pieno delle mie facoltà mentali. Ho insegnato per quarant’anni, e adesso che sono in pensione mi sveglio tutti i giorni che il Signore manda in terra alle cinque. Scendo nel pollaio che c’è ancora buio per dare il becchime alle galline. E l’erba secca ai conigli. Quando il cielo si schiarisce, mi incammino sul ciglio della strada che porta al paese per fare un po’ di spesa. Il pane, il latte. E le sigarette. Quell’uomo è così stupido, non lo vuole capire di smettere, dice la donna indicando il vecchio che si sta rivestendo. Sono quasi due chilometri, conclude.

E fa bene, dice il dottore. Brava.

Ah. Se avessi la sua età, mormora la donna.

Guardi che non sono così giovane, dice il dottore.

Non faccia il prezioso. Ma mi dica: cosa vuol sapere?

In che senso?, chiede lui senza capire la domanda.

Vuol sapere qualcosa della disputa tra classicisti e romantici? Dell’idealismo crociano? Di Proust? Oppure vuole che reciti il teorema di Pitagora? Be’: la somma dei quadrati costruiti sui due cateti è uguale al quadrato costruito sull’ipotenusa. Poi? Cos’altro? Talete? Vuole farmi una domandina di scienze? Vuol sapere dell’apparato digerente?

Lasci perdere l’apparato digerente. Per l’amor del cielo.

Era solo un esempio. Sono forte anche sul sistema nervoso.

Non lo metto in dubbio, sospira il dottore sempre più insofferente. Poi la prende sotto braccio per condurla dietro al separé che nasconde uno stanzino più appartato.

Si accomodi, dice indicandole una seggiola di acciaio. Adesso le spiego come sta suo marito.

Lei sospira. Poi si asciuga le lacrime che iniziano a scivolare leggere sulle gote avvizzite dal tempo e dal sole.

Il medico si siede sulla sua poltrona girevole in pelle e inizia a parlare, con un filo di voce.

 

Davanti all’ospedale c’è un bar con i tavolini fuori. All’inizio di ottobre non sono poi così rare le giornate come queste, con un sole che ancora riscalda e mette di buonumore. E allora è meglio approfittarne, prima che scenda il sipario dell’inverno.

I vecchi si siedono e ordinano due caffè.

La donna osserva la mano malferma del marito mescolare lo zucchero finché il liquido bollente esce dalla tazzina, macchiando la tovaglia. Poi sposta l’attenzione al suo giubbotto di renna, che è sullo schienale della sedia.

Appoggialo qui.

Qui dove?

Qui, sul divanetto. Accanto a me.

Perché proprio lì?

Così non si sporca.

Come vuoi.

È meglio, credimi.

Lui tergiversa un po’.

Ti ho visto, dice lei.

Cosa?

Hai preso un’altra bustina.

Il caffè mi piace dolce.

Lo zucchero ti fa male.

Lui sbuffa.

Hai la glicemia alta, tra le altre cose. Nel dire tra le altre cose usa un tono secco e sibillino. Un tono di condanna, pensa lui. Il dottore te lo ha detto, aggiunge.

Pfff. Il dottore. E chi se ne importa di quello che dice quell’uomo. Hai visto che razza di anelli? Hai visto quegli osceni tatuaggi sulle braccia? Sembra un aborigeno. Ha persino un orecchino. Ma poi: alla mia età, di cosa dovrei preoccuparmi?

Che stupidaggine. Vuoi morire domani? Vuoi morire stasera? Avanti, muori. Muori qui, subito.

A volte non ti capisco, fa lui con voce incerta.

Lo vedi, che non vuoi morire.

Mi succedeva anche da ragazzi.

Di voler morire?

No, di non capirti. Non sapevo mai se ero io a essere troppo stupido o tu, a essere troppo intelligente o furba.

O tutte e due.

Sì, probabilmente erano tutte e due, sorride lui.

Anche lei sorride: avevi una bella testa, somaro. Ma l’hai sempre usata così poco.

Come, poco?

Non vorrai raccontare a me che usavi la testa. Hai per caso usato la testa, quando hai venduto per poche lire la casa che fu dello zio, lassù in montagna, a quella famiglia di taglialegna? Hai usato la testa quando ti sei licenziato perché non ne potevi più delle insolenze di quel villano e zotico del tuo capo, parole tue, per andare a lavorare in quella che credevi una ditta modello? Mi ricordo la tua ammirazione per quella piccola rivendita di attrezzi agricoli, all’inizio ne parlavi come se si trattasse del paradiso terrestre. Mentre c’era una puzza di stallatico che non si poteva respirare. Due mesi dopo la proprietà è passata a una multinazionale. Ti controllavano anche quando andavi in bagno a pisciare. Ancora un po’ e ti mettevano il braccialetto elettronico. Hai per caso usato la testa, quando hai costretto tuo figlio a scegliere lo scientifico, lui che voleva a fare tutti i costi il classico? Al classico ci vanno i figli dei ricchi, dicevi. Almeno potevi risparmiarci i tuoi inutili comizi, quella tua retorica da anni Settanta. A cosa serve al giorno d’oggi sapere il Greco?, dicevi. L’hai usata, quando…

Il vecchio è assorto nei suoi pensieri. Non appena la moglie si ferma per prendere fiato, lui ammicca. Ne ho combinate, eh?, dice. Poi le prende una mano.

Grazie, sussurra.

Di che?

Per accompagnarmi ti sei dovuta alzare prima dell’alba. Hai dovuto prendere la corriera per scendere in città, e anche il taxi. Con la fatica che ci vuole a caricare la carrozzella. Per fortuna c’era l’autista più giovane, lui è sempre così gentile. Se solo non avesse il vizio di usare il telefonino mentre guida quel bestione… Prima poi finisce a canale. Comunque, quell’altro tiene sempre il broncio e non saluta mai.

Potevo lasciarti venire solo?

Chiamavo la Pubblica Assistenza. O l’assistente sociale. Il Comune ha appena comprato un fuoristrada nuovo. Un 4×4. Con i freni a disco, i fari a led e i rollbar. – Lui non sa con precisione che cosa sono i rollbar, ma al bar gli hanno detto così e a lui sembra un dettaglio importante da aggiungere.

Nostro figlio è senza cuore, dice lei levando lo sguardo per scrutare il cielo, che è terso e sgombro di nuvole.

Cosa dici?

Ti ha dato buca anche questa volta, risponde lei. Poi si volta verso il muro per nascondere le lacrime – di nuovo: vorrebbe non mettersi a piangere, ma è così difficile – agli occhi di lui.

Lui non ha mai tempo, balbetta il vecchio.

E tu? E noi? Lo avevamo il tempo, quando strillava la notte perché aveva fame o perché aveva il culo pieno di merda? Dovevamo lasciarlo strillare. Dovevamo dirgli che non avevamo tempo.

Sei troppo dura con lui.

No, sono giusta. La prossima volta che mi capita a tiro gli parlo io, a quell’ingrato. Perché tu non sei capace. Non sei mai stato capace.

Non farlo, ti prego.

Ci puoi giurare, invece.

La prenderà male.

E allora? Cosa vuoi che me ne importi. Alla mia età, non mi preoccupo più di quello che la gente dice o pensa di me, figurarsi se ho paura di nostro figlio. E poi, non mi ha mai voluto bene. Ai suoi occhi sono solo una vecchia impertinente e linguacciuta. E sai perché? Perché sono l’unica a contraddirlo. Sono l’unica che osa. Tu, gliele hai sempre date vinte tutte.

Non è vero.

Che cosa?

Che non ti vuole bene.

Lei singhiozza.

Lui dice: sono un uomo fortunato.

Lo dici per darmi un po’ di consolazione.

Pensa a mio fratello. A lui è andata peggio.

Preferivi venire a fare gli esami con la sua badante?

Adesso cosa c’entra lei?

C’entra, c’entra.

Devi dirmi perché vuoi mettere in mezzo lei.

Vuoi che non sappia cosa succede?, chiede la donna, che adesso sembra di nuovo baldanzosa. Ricordi Anna? Era la nostra vicina di casa, quando stavamo in città. All’inizio fu contenta, quando si mise in casa una donna dell’est con la mascella da uomo e le braccia talmente lunghe che non sapeva mai dove metterle. Aveva un carattere spigoloso, quella donna, ma sapeva il fatto suo. Alla mattina la portava sul Facsal e a mezzogiorno prendevano un Campari allungato con l’acqua al chiosco del campo giochi. E alla sera, a volte, andavano al cinema. Per gli anziani è gratis. Insomma, se la portava dietro dappertutto. Poi – chissà cosa le passò per la testa: pare avesse iniziato a frequentare un ufficiale dell’esercito in pensione – iniziò a riempirla di medicine per tenerla sedata. A Natale dell’anno scorso Anna era ancora in cucina che dirigeva le operazioni, e due mesi dopo non si reggeva più in piedi. Avresti dovuto vederla: era uno scheletro con la pelle appesa. Con quelle medicine che le dava la sua badante, sfido io che non si muoveva più.

Lui pare non ascoltarla. Sembra dondolarsi al suono del traffico della strada.

Una cameriera con i leggings si avvicina al tavolo per prendere le tazze.

Sì, adesso andiamo, dice la donna.

Non vi preoccupate, dice la ragazza. Potete stare.

Che carina, sospira lei seguendola con lo sguardo fino a quando le è possibile. Come mai non le hai guardato il sedere?

Come mai non le hai guardato il sedere?

Insomma: non mi dici come sto!, sbotta allora il vecchio. Fai tante parole, come al solito, ma non mi dici cosa ti ha detto il dottore.

Lei lo contempla amorevolmente. Contempla i suoi occhi blu, che sono quelli di una volta, gli occhi del ragazzo che faceva il garzone in un’officina meccanica vicino alla casa dei suoi, un bellissimo ragazzo con due spalle larghe e un torace da eroe greco, due occhi blu come una notte stellata d’estate. Solo più tristi. Contempla la sua barba bianca, incolta, da vecchio saggio, lui che saggio non è mai stato. Lui che è un impulsivo. Un animale. Contempla le sue mani. Lei ha sempre adorato le mani del suo uomo. Mani legnose, da uomo capace di mille mestieri, mani forti ma non volgari, con le lunghe dita affusolate e le unghie curate con la lima. Lei ha sempre guardato con curiosità e ammirazione le mani degli uomini. Una sua collega, una ragazza dalla carnagione scura e una testa di boccoli che insegnava storia dell’arte, sosteneva che le mani erano la cosa più difficile da dipingere. Anche per gli artisti più grandi. Nel tardo Medioevo, le aveva raccontato mentre pranzavano insieme in mensa, i pittori si aiutavano con delle sagome da ricalcare oppure con la tecnica dello spolvero: venivano bucherellati con un chiodo i contorni del disegno preparatorio, solitamente su un cartone, per poi tracciarli con la polvere di carboncino sull’intonaco fresco o sulla tela. I grandi maestri del Rinascimento, aveva detto, erano stati i primi a saper disegnare le mani. E anche i piedi. Masaccio aveva fatto uomini e donne con i piedi ben piantati a terra, non più a galleggiare nel vuoto come nel Trecento. C’è una tavola, agli Uffizi, che rappresenta la Vergine, il bambino e Sant’Anna. Ebbene, le prime due le ha dipinte Masaccio, aveva spiegato senza saccenteria, la terza invece è di Masolino: il suo maestro, più anziano di una generazione. E infatti quello scorcio della mano sinistra della santa, protesa sopra il capo del bambino, tradisce un certo impaccio. Pochi decenni dopo, ecco l’Annunziata di Antonello, quasi un’immagine fotografica, un istante che coglie timore e accettazione, reso lampante dal gesto di quelle mani sottili che sembrano indicare sé stessa. Chi, io?, pare stia dicendo. E infine, quell’invenzione sublime delle mani di Dio che sfiorano le mani del primo uomo, nella Creazione di Michelangelo… La collega aveva sospirato. Lei, la sera stessa, se le era andate a guardare sui libri, quelle opere d’arte, e aveva scoperto la grande bellezza di quelle mani. Come le mani del suo uomo.

Il rombo di un pullman la distoglie dal suo fantasticare.

Lo sai, dice lei quando il mezzo è ormai lontano. Sei ancora un bell’uomo.

©Giovanni Battista Menzani

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