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PENELOPE STORY LAB
Scuola di scrittura

[Racconto inedito] La Vinci.

Luigi Antioco Tuveri (Milano, 1964) scrive. È più o meno ciò che so di lui: so che è amico di amici, un paio di altre cose. Ma so che scrive, e nella mia testa è lì che si rumina i pensieri. Mi viene da dire che scrive con una scrittura operaia: a me a volte vengono fuori dei complimenti che non lo sembrano, ma la scrittura operaia per me è un complimento che lo sembra anche. Tipo: il racconto scivola piano, senza facili lirismi, e poi lo rileggi e ci trovi delle frasi come il cielo di settembre è gonfio di vento che intreccia le nuvole, e non sono frasi semplici né sempliciotte: è che lì, lo scrittore operaio, ha detto una cosa che ha costruito e si sentiva.
Ma è quello che so di lui. A volte, non sapere delle persone mi piace. So che parleremo, con certezza, so che ci incontreremo ancora qui a Milano, con certezza, ho letto i suoi shottini e, dopo un paio di assestamenti, ne ha piazzati diversi di una bellezza sopraffina.
Quindi, è quello che diremo: Luigi Antioco Tuveri scrive. E lo fa bene. Tanto bene che, lo so per certo, questo, il racconto che andate a leggere è la cosa più bella che leggerete oggi.

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La chiamiamo Vinci, a lei piace. È una femmina ma fa le stesse cose di noi maschi. Ha i capelli corti, diritti, neri come corvi. Mi ama, così credo d’aver capito, insomma più o meno. Mi porta i bigliettini mentre sto giocando a pallone, mi mette in imbarazzo, gli altri mi prendono in giro.

«Era ieri, eppure è adesso, sento la sua assenza e la sua presenza allo stesso modo: siamo monumenti di ricordi che prima o poi qualcuno verrà a demolire».

La psicologa annuisce, parlo solo io, quasi sempre io.

Vinci si veste come noi: pantaloni, scarpe sportive e calzette colorate. Dopo che mi dà il bigliettino, si ferma a giocare. È brava, tira forte, difende bene e quando provi a dribblarla, se ti ruba palla, ridiamo fino a strozzarci. Lei resta impassibile. Vinci sorride raramente, di solito mette giù la testa e continua a correre per dimostrare che può essere una di noi. Le nostre partite durano pomeriggi interi, scendiamo dopo aver mangiato e saliamo che la cena già fuma nei piatti. Una volta è arrivato il padre e l’ha presa a sberle: Vinci aveva dimenticato il dentista e non era tornata a casa per tempo. Erano le sette ed era ancora lì con noi tutta sudata e nera di polvere. Vinci trattiene negli angoli degli occhi un lampo di tristezza dolce. Non so se la amo o no, anche perché non si può certo dire che sia una gran bellezza, anzi, tutti la considerano un ciospo, e poi, in ogni caso, io non so bene cosa sia l’amore, anche se quando Vinci arriva col bigliettino fatto con una pagina di quaderno a quadretti, per non farla restare male, prima d’infilarlo in tasca gli do un’occhiata; leggo quelle parole semplici, sono belli i colori che adopera, mi disegna mentre gioco a calcio o in sella alla bici. A pallone giochiamo nello spiazzale, facciamo più o meno tutto lì. Lo spiazzale è un pianoro d’asfalto che sarà lungo cento metri e largo quindici; sorge tra i palazzi delle due vie principali del quartiere che non sono vie normali ma seguono i labirinti di palazzi popolari sopra cui hanno costruito il quartiere. Girano a destra, poi a sinistra, tornano e ripartono senza la logica delle planimetrie. Quando alcuni amici erano venuti a trovare me e la mia famiglia e non riuscivano a capire dove fosse la nostra casa, appena hanno visto dei ragazzetti hanno domandato se mi conoscevano e quelli hanno indicato il palazzo giusto, la scala e pure il piano.

«La vanità non permette di perdonarsi, l’altra strada è farla finita, ma ci vuol coraggio, cosa che non è per i vanitosi».

«Eppure lei è una persona che fa tante cose, ha interessi, amici».

«Io? Solo fallimenti in serie».

«Come tutti, ma si riparte».

Vinci l’altro giorno non si staccava più da me, sembravamo due cani che si annusano il culo. Le avrei dato un bacio, ma non davanti a tutti. Soltanto dopo mi è venuto in mente che potevo portarla dietro lo stabile delle caldaie per cercare di stare noi due e basta, anche se in verità è dove noi maschi andiamo a leggere i giornaletti porno e poi facciamo la gara di seghe, quindi non sarebbe stata una buona idea. Il quartiere è un posto che ci fa sentire a casa, voglio dire che in bici ci piace andare altrove, tuttavia preferiamo tornare, così quando le visioni delle campagne e dei frammenti di città che abbiamo visitato si dissolvono come sogni deboli e la realtà torna a essere quella dei palazzi dove stretti alle tavole nutriamo corpi e desideri, tutto scorre regolare.

Tempo fa, era maggio, una bambina è caduta dal settimo piano. Il padre era al lavoro, la madre era uscita a far la spesa. È accaduto di mattina, verso le nove. La bambina ha tre anni, sì, dico “ha” perché è viva. Noi lo abbiamo saputo dopo, tornati da scuola, ed era accaduto che la bambina dopo essersi sporta e aver perso l’equilibrio, con un gesto da Cat-Woman era riuscita ad aggrapparsi ai tendoni. Le sue grida hanno attirato l’attenzione del quartiere che passava venti metri sotto, ecco perché la signora del pianterreno accorsa in strada, quando la bambina ha perso la forza per tenersi alle tende ed è caduta, ha messo due braccia possenti a cuscino e l’ha presa al volo accompagnandola nei cespugli. Risultato: bambina, zero graffi; donna eroica, due braccia fratturate. Per giorni non s’è parlato d’altro e tutti i giornali nazionali, usciti con il quartiere in prima pagina, invece di definire come al solito i nostri appartamenti casermoni o conigliere in calcestruzzo, avevano scritto che la bambina viveva in palazzine bianche, proprio così, “delle palazzine bianche”. Negli articoli titolati “Miracolo a Milano” non eravamo più un quartiere dormitorio ma qualcosa di lecito, eravamo palazzine bianche.

Vinci, ancora adesso, è felice quando ricorda il coraggio e la forza che ha avuto la signora a mettere le braccia, le brillano gli occhi, diventano lucidi.

– Tu l’avresti fatto? – le chiedo.

– Sì –  risponde – lo ricorderà per tutta la vita d’averla salvata, andrà in paradiso.

E niente, oggi siamo seduti sui ferri che delimitano le aiuole dello spiazzale. Le vacanze finiranno tra pochi giorni e il cielo di settembre è gonfio di vento che intreccia le nuvole. Tiriamo i rigori. Il sole cade proprio dietro il palazzo della bambina e Vinci ha il viso metà dentro il tramonto e metà a est. La guardo e lo vedo tutto il suo cuore, batte come quelli che disegna sui foglietti. Non ho mai molte parole, mi alzo, tocca a me tirare; sento che lei vorrebbe trattenermi lì vicino, ma gli altri già mi chiamano con le solite facce da va bene sopportare una femmina che gioca a pallone, ma non esageriamo.

– Vinci? Tu non tiri? – le gridano dopo che il mio è andato alto.

– No – dice lei – passo.

Sento di nuovo lo zzz di una calamita attirarmi, è Vinci che ha un viso diverso dal solito, è quello dolce e malinconico che conosco ma con una punta di quella smania che vorrebbe dire, fare, lettera, testamento e che però resta al palo della timidezza.

– Passo il cazzo – le dicono gli altri, e anch’io lo dico – hai voluto giocare? Adesso tiri!

Vinci allora si alza di colpo, mette la palla nel punto esatto, prepara una breve rincorsa e tira così forte e angolato che la palla, quando rimbalza sul tondo di cemento che fa da palo, torna indietro, centra in pieno il culo del portiere ed entra in gol.

Ridiamo tutti forte.

– Vado via – dice lei – mio padre ha trovato un lavoro in Germania, partiamo domani.

Ripigliamo a giocare. Vinci ci dà dentro, pantaloncini corti che le cinturano le cosce, maglia dell’Argentina e scarpe da tennis. Arrivati a dieci gol, poi, saluta normale, pare dire ci si vede domani e invece sta andando via per sempre e né a me né a nessuno escono parole più potenti del sole che tutto intero svanisce, nulla è più meritevole dello stridore dei Ciao smarmittati che impennano tra i palazzi, nessuna poesia è più bella delle sfumature vespertine che accarezzano le spalle secche di lei che si allontana, gira l’angolo e porta via la scritta Vinci e il numero 7 sulle strisce bianche e azzurre della maglietta.

«È il passato, è ieri, eppure è adesso, sento le sue parole, ancora: siamo statue alla memoria che presto smantelleranno».

La psicologa annuisce, parlo solo io, quasi sempre io.

Inizia la scuola, arrivano anche ottobre e novembre, e poi dicembre. Una ragazza della Terza C che conosco appena, qualche giorno prima delle vacanze di Natale, mi vede e durante la ricreazione viene nella mia classe.

– Ho una cosa per te.

– Per me?

– Sì, della Vinci.

– La Vinci – dico – è andata in Germania…

– Lo so, e prima di partire, a settembre, mi ha dato questa.

– Ah! – faccio sorpreso, guardando la ragazza della Terza C con in mano una busta – per me?

– Sì.

– Ah!

– Ah? – ride – non volevo dartela, ma poi c’ho ripensato.

Io zitto.

– Ti voleva bene – dice lei – era innamorata, lo sapevi, te n’eri mai accorto?

– Sì, cioè.

– Cioè? – ride di nuovo, mi guarda come stesse esaminando un insetto al microscopio – vabbè, lasciamo perdere.

– Cosa?

– Cosa? Giusto!– scuote la testa – cosa ci trovava in te la Vinci?

Allargo le braccia, mi guardo attorno, per fortuna la classe è vuota, c’è solo la Cerra seduta al banco che ripassa Scienze.

– Poi mi sono decisa – dice la ragazza della Terza C – tieni.

Mi mette in mano la busta color crema e io niente, la infilo in tasca e faccio sì con la testa. Poi la riprendo e con la mano ci gioco un po’, titillo le linee oblique dei bordi sigillati.

– Non so cosa la Vinci ti abbia scritto – dice la ragazza della Terza C mettendo le mani sui fianchi – ma so per certo che qualsiasi cosa ci sia in quella busta, per te sarà una punizione.

Esce dalla classe e si mescola agli altri nel corridoio. La Cerra, lasciato il libro, mi fissa con gli occhi sbarrati mentre stringo la busta con la mano e stropiccio le parole, le soffoco.

– Che hai, Cerra? – le faccio un gestaccio – studia Scienze che la prof ti interroga di sicuro.

Prendo la busta e la metto nella tasca dei jeans: gli altri stanno rientrando in classe.

«Si chiamava Giuseppina Vinciguerra, non ho amato neppure lei, tutto qua».

La psicologa fa sì con la testa, parlo quasi sempre io, solo io.

©Luigi Antioco Tuveri

Il profilo di Luigi Tuveri su FB

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