Ivano Porpora è scrittore, insegnante di scrittura e tiene incontri di narrazione terapeutica.
Questo non è il suo primo racconto.
Insegna nella scuola di scrittura Penelope Story Lab.
Il piccolo guarda la ciotola quando gliela passo.
“Non va bene”.
Il cielo è ancora scuro, fuori. Le insegne del supermercato lampeggiano di fronte alla finestra della cucina; ho chiesto che le venissero a cambiare tre settimane fa, la commessa mi ha guardato come si guarda un casco di banane ancora verde, come se si dovesse ancora semplicemente lasciare lì; con una particolare inespressività negli occhi che per un innamorato sarebbero stati celesti e invece erano solo liquidi; ho chiesto di parlare con il proprietario del supermercato, mi ha detto: Non c’è.
“Non va bene”, ripete.
“Cosa c’è che non va bene?”
“La mamma non lo preparava così”.
Mi avvicino per guardare dentro alla ciotola. Ha sparso avena tutto intorno alla ciotola stessa, sul tavolo, eppure non ha sostanzialmente mangiato. Glielo dico.
“Come cazzo fai a sporcare ovunque anche se non mangi?”
Non alza la testa. Mi dice: “Quello della mamma era meno duro”.
Effettivamente l’avena è un blocco solido, e il cioccolato che ho grattato dalla forma, a scaglie, si è solidificato in grumi marroni. “Se lo avessi mangiato quando te l’ho dato sarebbe stato meno duro”.
“Eh, ma non mi piaceva”.
“Adesso ti piace di meno. …Mangialo, dài”.
Mette il cucchiaio dentro la ciotola; ammucchia il cibo di destra a sinistra, quello di sinistra è un blocco solido che rotola a destra. Intanto io passo la spugna sulle ciotole che abbiamo lasciato ieri. La grande si sta truccando in bagno.
“Devo andare in bagno”.
“Prima mangi, poi vai in bagno”.
“Ma mi scappa”.
“Non ti alzi dal tavolo finché non hai mangiato tutto”.
“La mamma lo faceva più buono”. Ci pensa. “Non sei un bravo genitore”.
Prendo la paglietta per passarla sul pentolino del riso. L’ho bruciato ieri; abbiamo mangiato il riso che era rimasto sopra, bagnato nel sugo di pachino; ora devo togliere i chicchi che sono diventati marroni, ma si sono attaccati all’acciaio e fanno un unico.
Il riso, ho preso lo stesso che prendeva lei. L’avena, anche – la voleva sempre da un supermercato diverso rispetto a questo, aveva le etichette tedesche; per scherzo le dicevo che dalle etichette non sapevo distinguere lo shampoo dallo sciroppo d’acero.
Ahornsirup.
La paglietta d’acciaio, invece, è proprio la stessa: ho trovato stamattina il posto dove le metteva.
Mentre sono lì che sto pulendo, scoppia a piangere.
“Cos’è successo?” gli dico.
“Non mi va proprio. Mi fa schifo”, dice; la parola schifo gli viene pronunciata male, attaccata ai molari come il porridge che gli ho fatto secondo la ricetta della madre.
Fiocchi d’avena.
Latte di riso.
Cioccolato in scaglie.
Lei ogni tanto ci metteva anche dei mirtilli e delle noci; ieri mi sono dimenticato di prenderle.
Lo tiro su velocemente, pesa quasi trenta chili, e faccio per mettermelo in braccio e mangiare con lui; e mi accorgo che ha i pantaloni del pigiama bagnati.
Tiene la testa bassa. Ha i capelli rasati da poco; siamo andati dal barbiere cinese insieme, abbiamo speso trenta euro in due.
“Ti sei pisciato sotto?” gli dico.
Non dice niente.
Silenzio.
Poi: “Non sei un bravo genitore”.
La sua pipì mi bagna la coscia. La sua vergogna diventa la mia vergogna, in quel caldo lì. La coscia pizzica.
“Ce l’hai il cambio?” dico, tenendomelo sulla coscia.
Fa segno di sì con la testa.
“Se ti rifaccio la colazione, ti vai a cambiare?”
“C’è Enrica in bagno”.
“Le dico di uscire”.
“Non dirgli—“.
“Si dice dirle”.
Fa segno di sì con la testa, la nuca bassa.
“Non glielo dico”.
Si alza, resta lì, i pugni stretti, basso, il fisico da lottatore del padre già nei geni; negli occhi, gli occhi della madre.
“Cosa c’è”.
“Cosa mi fai per colazione?”
“Ti va bene il pane spalmato con la Nutella?”
“La mamma me lo faceva col pane nero”.
Una bestemmia mi sale dal profondo dell’anima. Riesco a pensare solo a quella bestemmia, come un murale sul piedistallo del David che dica cose che non riesco a nominare. Il pane nero, penso. Quel cazzo di pane nero immangiabile, pesante, denso.
Mi viene in mente Carver,
«Annusate questo» disse il fornaio spezzando un pane nero. «È un pane pesante, ma ricco.» Lo annusarono, poi lui chiese loro di assaggiarlo. Aveva un sapore di melassa e di frumento. Stettero lì ad ascoltarlo. Mangiarono quel che poterono. Inghiottirono il pane nero.
Poi tiro un sospiro, fondo. Gli dico: “Ho le gallette”.
“Non c’è il pane nero?”
“No, il pane nero non c’è”.
“…Possono andare bene, questa volta” dice. “Ma tanta Nutella”, dice.
“Tanta. Promesso. Più della mamma”.
Fa per dire qualcosa, ma non dice niente. Chiamo sua sorella, le dico: Truccati in camera, abbiamo bisogno del bagno.
Lei mi guarda il pantalone, è bagnato. Io guardo in giù, e all’improvviso mi vergogno di me.
©Ivano Porpora
La mamma non lo faceva così.
E’ un tempo passato, la mamma non è altrove, la mamma non c’è.
Si avverte una solitudine disperata, una disperazione rabbiosa inespressa mentre il tempo passa cancellando, o forse soltanto ricoprendo di Nutella, un ricordo crudele.
Bellissimo.