PENELOPE STORY LAB
Scuola di scrittura

[Racconto inedito] L’uccellino.

Isabella Torazza (Pavia, 1976) ha seguito corsi in presenza fin quando è stato possibile; ora fa parte del gruppo dell’online, sia con corsi come Scrivere l’infanzia – che riparte a breve -, sia con il Pen up, l’allenamento mattutino.
Questo lavoro ha dato i suoi frutti? A voi leggere e dire. Per noi questo racconto va a toccare una parte di Isabella che era presente ma fuori fuoco, e che finalmente è riuscita a portare al centro della sua narrazione; lo stile ne consegue. Il risultato è uno scritto perfettamente a fuoco, dolente ma senza cadere in piacionerie o semplificazioni tragiche; l’aspetto simbolico del cane e della vasca delle carpe, del polpo, del cibo in generale, per noi, sono esempi di quanto la sua scrittura sia maturata.
Di due cose siamo sicuri. La prima, è che ha nel suo arco frecce molto interessanti.
La seconda, è che questa sarà la cosa più bella che leggerete oggi.

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Anna non era capace di fare la donna, era un uccellino, e quando papà l’aveva portata nella sua casa dal giardino immenso, lei, con le palle stralunate degli occhi aveva guardato incredula il mondo che l’attendeva. Un mondo fatto di lenzuola stirate, macchina per il pane, e una veranda con le piante da annaffiare.

Aveva imparato in fretta a coprire di più le gambe e truccarsi di meno, e al pomeriggio faceva prove di eleganza sulle scarpe che papà le aveva comprato in via Roma. Si sarebbero ricreduti tutti, anche la fruttivendola: il Dottore non era impazzito.

Il giorno del compleanno di Anna, una squadra di muratori aveva invaso il giardino. «È il mio regalo per te», le aveva detto papà. Lei non capiva, faceva domande sulla buca ma papà non rispondeva. Quando la riempirono d’acqua e ci buttarono dentro le carpe, Anna pianse.

«Me ne hai parlato la prima notte, ricordi?», aveva detto papà baciandole la nuca.

Papà aveva comperato anche una panchina con le gambe di ferro e i muratori l’avevano fissata a terra con quattro colate di cemento, nella striscia d’erba tra il nocciolo e il laghetto. Al centro dello specchio d’acqua c’era una specie di fontanella per dare ossigeno ai pesci; Anna si sedeva sulla panchina ad ascoltare il rumore delle bolle con la gratitudine sul viso.

Una sera di settembre, papà puntava il telecomando alla tivù, Anna disse «Faceva freddo, oggi, l’albero fa ombra, volevo spostare la panchina al sole ma non si può».

«Ah ah».

«Possiamo togliere il cemento. Avevo preso gli acquerelli di Matilde ma avevo freddo».

«Un bel guaio».

«Volevo provare a pitturare le carpe».

«Gli imbianchini pitturano».

«Cosa?».

«Niente».

«Possiamo chiamare i muratori e fargli staccare la panchina».

«Smettila».

«Li chiamo io, sarà un lavoro da niente, no?»

«Ti ho detto di smetterla».

«Voglio spostare la panchina al sole».

Papà si era alzato, aveva preso il guinzaglio dall’attaccapanni e nel silenzio se n’era andato.

Anna non era pratica di rapporti con un uomini di cultura ma comprese di aver esagerato e si mise a preparare la zuppa messicana. Lasciò i fagioli a sobbollire lenti. Poi capì. E si coricò a stomaco vuoto.

Papà rincasò tardi, con il cane, in camera da letto.

Anna aveva il terrore delle bestie: cani, gatti, criceti, persino delle tartarughe lente. Le piacevano solo gli animali acquatici, le carpe soprattutto che vivono in un altro elemento e non possono fare niente di male al di fuori.

Il cane era rimasto in casa da quel giorno, seguiva papà dappertutto: quando lui si sedeva il cane si sdraiava sul suo piede, quando si alzava il cane gli andava dietro. Anna non si poteva avvicinare.

L’inverno era passato senza neve, e poi i fiori del pesco, le zanzare, gli ombrelloni aperti per il sole e chiusi per il vento di settembre; le nocciole cadevano sulla panchina cementata con un rumore di grandine.

Il tempo in cui Anna aveva pensato agli acquerelli sembrava lontanissimo. Ora voleva solo tenere la casa profumata e cucinare come diceva il libro ma dimenticava il gas acceso, non rispettava i tempi di lievitazione e più di una volta aveva scambiato il sale con lo zucchero. Così smise di provarci.

Si imbruttì riappropriandosi di una volgarità nuova, senza colori, coprendo il corpo con abiti spessi, dimenticando la trepidazione per l’arrivo dell’uomo dei sogni perché lo aveva già avuto.

Anche papà s’imbruttì. La sua infermeria si fece coraggio e disse «Dottore, non può venire al lavoro in questo stato», ma lui non capì e l’indomani indossò di nuovo quella camicia.

La casa restava in piedi ma le piante in veranda erano bastoni che spuntavano dalla terra crepata, agli angoli del pavimento c’erano mucchietti di cemento e un via e vai di formiche e l’odore di sigaretta impregnava tende e i copridivani. Così smisi di andarci.

Non so dire cosa accadesse tra loro, non li immaginavo urlare o strattonarsi: un litigio necessita una quantità di energia che Anna e papà non possedevano più.

Trascorse un altro anno di vita sprecata quando un brutto male si portò via il cane.

Anna guardava papà scavare la fossa tra la panchina e il nocciolo domandandosi perché proprio lì. Non si sarebbe mai più seduta a guardare le carpe, non avrebbe appoggiato i piedi sulla terra che onorava la bestia che le aveva rovinato la vita. Ma tra il movimento della pala e gli sbuffi di papà ebbe l’intuizione: non tutto era perduto, avrebbe potuto riavvicinarsi all’uomo dei suoi sogni, stare con lui sul divano e magari, con il tempo, papà sarebbe anche tornato a dormire di sopra. Mise i fagioli a sobbollire lenti e cenarono, ognuno coi suoi pensieri. Anna chiese a papà se volesse un altro po’ di zuppa, lui fece di no, lei sorrise e lavò i piatti, i fornelli, sfregò i denti e si mise sul divano, lontana. Non tutto era perduto.

La sera dopo papà rincasò con gioia, lo sentì ridere in cortile e accese la candela sul tavolo, poi sistemò il ferretto del reggiseno, accaldata davanti alla pentola del polipo.

Sentì le chiavi, la porta, l’allegria di papà, il proprio cuore sussultare.

Quasi cadde dallo spavento. Un cucciolo dalle zampe enormi le era corso addosso graffiandole la pancia nel tentativo di saltarle in faccia; papà lo aveva chiamato e quello se n’era andato scodinzolando contro tutti i muri. Anna tagliò i tentacoli in cilindri grossolani.

Al mattino c’erano peli ovunque: sul tappeto, sul copri divano, sui pantaloni, un batuffolo sotto il termosifone del bagno, sulla giacca, la camicia e il piumone; così prese la decisione.

Quando papà rincasò il cane non gli corse incontro; lo chiamò più volte finché lo senti guaire in lontananza. Andò incontro al lamento e quando aprì la porta della stanzetta il cane non si mosse da dov’era, rimase semisdraiato con le zampe anteriori allungate e la testa all’insù a guardare i piedi di Anna che penzolavano. Nemmeno papà riuscì a muoversi e non si accorse del disco che girava inutilmente sul giradischi, la puntina a fine corsa da chissà quanto. Anna non lasciò tracce di quello che successe quel giorno, solo un biglietto giallo sulla copertina di Sabato pomeriggio diceva “Io questa casa non la lascio”. Lo aveva scritto sul lato sbagliato, quello con la striscia appiccicosa, perciò lo aveva semplicemente appoggiato sulla foto lucida del sole enorme; un colpo di vento avrebbe anche potuto portarlo via.

Isabella Torazza

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