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PENELOPE STORY LAB
Scuola di scrittura

[Racconto inedito] Non sarei mai dovuto uscire da questa stanza.

In un’altra vita, io e Gianluigi Bodi (Jesolo, 1975) ci siamo incontrati a Venezia. Ho addirittura il dubbio che sia mai accaduto: l’immagine di noi due è abbastanza chiara, due pesi massimi seduti in un bar a un tavolino di legno, io un po’ curvo sul tavolo, lui un po’ curvo sul tavolo, che facciamo una delle cose più belle che possano fare appassionati di scrittura: si raccontano storie.

Ha poi partecipato a un corso o due, in presenza, ora non ricordo e non è importante; ciò che è importante è che l’aria che aveva in classe e ciò che trasmetteva con la scrittura erano, diciamo, immagini completamente diverse eppure in qualche modo consonanti.

Gli ho chiesto un racconto di settecento parole, mi ha scritto questo, che fa male come quelle ferite alla bocca che cerchi di continuo con la lingua; e, cosa lo dico a fare, è la cosa più bella che leggerete oggi.

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La via si era fatta pastello, la luce del sole, ormai pallida, veniva assorbita dalle pieghe dei giardini anonimi, dalle siepi poco più di uno schermo e dalle case tutte uguali di una strada indistinguibile dalle altre di Reading, una strada che percorrevamo a piedi e che separava il nostro dormitorio universitario dal turco che aveva dedicato la sua vita ai Kebab con una dedizione da artigiano di vecchia scuola. Mancavano poche settimane alla fine; l’estate, per la prima volta nella mia vita, non avrebbe significato l’inizio di qualcosa di promettente, ma la fine di un mondo di possibilità che non sarei riuscito a esplorare.

Avevo preso un Döner con tutto, lo mangiavo camminando e tu sceglievi una a una nel cartoccio quale patatina fritta portare alla bocca; e nell’eleganza con cui ti leccavi le dita unte vedevo come sarebbero potuti essere i nostri figli. La salsa era più piccante del solito, toglieva il sapore al resto e quando hai fatto una battuta su come sarebbero stati i tuoi pompini se quella salsa l’avessi mangiata tu a me è andata di traverso la cipolla e ho iniziato a tossire, credevo di soffocare lì per strada e allora mi sono messo a ridere, piegato in due, fissando l’asfalto con gli occhi pieni di lacrime: quel lembo di catrame che mi sembrava bellissimo e io che pensavo che nonostante tutto tu mi avresti baciato ancora.

Siamo rientrati nella tua stanza, ci siamo seduti sul letto e abbiamo fatto quello che tutti gli innamorati fanno; abbiamo parlato per ore finché la luna non ha attraversato la finestra per controllare se fossimo ancora vivi.

Qualcuno ha bussato alla porta, una, due, tre volte, pensando forse che ti fossi isolata nel tuo mondo grazie alle cuffie e che solo con la forza bruta sarebbe riuscito a riporti fuori da lì; io ho smesso di respirare, ti ho appoggiato una mano sulla bocca e me l’hai baciata.

E poi mi hai chiesto cosa ne avrei fatto della mia vita e io non ho saputo risponderti perché non mi ero mai spinto così avanti nel tempo. Ti ho detto solo che avrei voluto essere felice e che pensavo che per farlo sarei dovuto stare con te. E tu ti sei messa a piangere, ma non me ne hai detto il motivo. Ti ho asciugato le lacrime con il bordo del lenzuolo, mi sono alzato ad accendere la piccola radio che avevi scovato usata al mercatino settimanale e che avresti lasciato lì, comprata per essere provvisoria, e la rotellina dentata si è fermata su un suono familiare, una canzone che mi avevi fatto conoscere tu, “Nightswimming” dei R.E.M.; “Come è possibile che tu non la conosca?” mi avevi chiesto gioiosa e persa nella mia ignoranza. E da allora l’avrei riconosciuta per sempre anche se non avrei più avuto voglia di ascoltarla.

Sono ritornato sul letto, mi sono disteso, ho passato il mio braccio attorno alle tue spalle, per intrecciarmi a te, per tenere la tua testa sul petto. Ho pregato che le mie ascelle non puzzassero, ma tu non hai detto nulla e poco dopo ho sentito che ti eri addormentata, mentre io sono rimasto sveglio, con gli occhi aperti fatti per attraversare i vetri della finestra; ho guardato le stelle e quel cielo che mi era sempre sembrato troppo grande per essere afferrato tutto con lo sguardo e mi sono chiesto quanto di ciò che vedevo sarebbe rimasto con me. Ti sei mossa, hai parlottato nel sonno e dalla bocca è uscito un filo di saliva che si è fuso con il cotone della maglietta; ho cercato si assaporare quel momento il più a lungo possibile ma è arrivata la luce della mattina. Il corridoio si è risvegliato, ti ho salutato con un bacio sulla fronte per paura di ciò che la notte doveva aver fatto in combutta con il Döner. Ho aperto la porta e nessuno mi ha visto. Hai passato la mattina a lezione di russo e io nella caffetteria e poi dopo qualche giorno ti ho chiesto di sposarmi e tu hai detto no. Ora non so più nulla di te.  

©Gianluigi Bodi

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