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PENELOPE STORY LAB
Scuola di scrittura

[Racconto inedito] Quello che non capisco.

Carmelo Vetrano, per me, ha un prima e un dopo una lezione particolare. Ci sono gli allievi che leghi a un ricordo, un fatto, un luogo addirittura, un’abitudine; lui, una lezione, a Verona.

Prima, era bravo. Poi è diventato Carmelo. Quando insegni a certe cose ci sei abituato; al fatto che devi avere immense cautele, e a volte hai la fortuna di beccare il consiglio giusto che spinge una biglia giù per il suo piano inclinato.

Ora chiederete: sì, ma chi è Carmelo Vetrano?

È uno scrittore, per me; uno di quelli di cui sto solo aspettando le prime cento pagine per dire andiamo. Voi godetevi queste settecento parole, intanto. E questa, ovviamente, sarà la cosa più bella che leggerete oggi.

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Quello che non capisco sono i colori, i colori sono instabili e mi fanno sentire stupido. Con Anna li mescolavamo, stendevamo una tela sul pavimento, infilavamo le mani nei contenitori e tiravamo su dita gocciolanti di blu, rosso, verde. Lei si metteva da un lato, io dall’altro. Il bianco ruvido e innocente della nostra prima tela ci ha fatto paura e ci ha bloccati, ma lei era l’artista, e mi fidavo della sua immaginazione. Poco alla volta abbiamo cominciato a coprirlo, tenevamo le mani a un metro da terra, il colore si staccava piano e cadeva con un ticchettio liquido. Giravamo intorno, guardandoci a vicenda per controllarci le mosse; le nostre braccia si intrecciavano e anticipavano il grafico inquieto che il colore avrebbe creato subito dopo sulla tela. Abbiamo raggiunto ogni angolo e annullato ogni traccia di bianco, arrivando fino al pavimento, fino ai nostri piedi. Ci siamo stesi per terra, stanchi, avvicinando ancora le nostre mani sporche per passarci uno spinello macchiato, e abbiamo aspettato felici per tutta la notte che i colori si asciugassero. Non siamo più riusciti a riprodurre quelle sfumature, quelle linee, quelle tonalità. I colori sono instabili, le dicevo, e lei annuiva. I colori erano gli stessi, le mani erano le stesse, ma i nostri movimenti seguivano un pensiero nuovo, creavano una traccia che mi faceva perdere l’equilibrio. Hai visto come sono instabili? Siamo andati avanti con altre tele fino a quando lei non ha detto Cosa c’entrano i colori? Ogni cosa che ci passa davanti ormai è passata, il ricordo è una malattia. 

Gli ultimi giorni sono stati i peggiori, sempre a tossire, a cercare di separare ricordi che si erano incrostati gli uni sopra agli altri, senza mai trovare un momento di lucidità, a rispondere alle domande del vicino che, prima, si era sempre fatto i fatti suoi. Gli parlavo con parole che avrei dovuto usare per rispondere a domande che Anna mi ha fatto mesi fa, o che forse ho immaginato mi abbia fatto. Il vicino viene a suonarmi tutti i giorni e non so se capisca. L’unica cosa che vorrei dirgli è Non è vero, allora, che ti facevi i fatti tuoi. 

La prima tela la tengo appesa in cucina e a volte ci passo sopra le dita, seguo quelle piste di colore che si intersecano, mi lascio guidare dalla loro frenesia, ma, nei punti in cui il colore è più denso e si solleva, pretendo di rimanerci; è più denso, e più morbido; si deforma un poco sotto la pressione delle mie dita, che poi faccio scivolare in basso come quando scivolavano sul seno di Anna. Da lì parte una scossa che mi attraversa il corpo, ripeto quel movimento un’altra volta, poi un’altra e un’altra ancora, fino a quando il ronzio del frigo non si trasforma in un urlo che fa tremare i bicchieri.

È più difficile di quanto immaginassi. Capire, è difficile. E provarci è una perdita di tempo che apre finestre di dolore. La comprensione, ha detto lei una volta dopo che eravamo usciti da un bar, la comprensione è sopravvalutata. Quello che conta, quello che davvero conta, e che in nessun cazzo di modo riesci a mettere davanti ai tuoi occhi, è quello che senti. Capire, conoscere, pensare sono foglie morte. Per schivare le sue parole ho guardato per terra, ed era lì che lei aveva preso la metafora, lei trova tutto senza nemmeno cercare, il mondo sporge i suoi rami sopra di lei e lei deve solo allungare la mano e prendersi quello che vuole. Mi è venuto il fiatone a guardare i nostri piedi circondati da foglie che sollevavano appena una punta verso Anna, un breve cenno di assenso che metteva lei al centro della scena ed escludeva me. Su un balcone, una ragazza si sporgeva dalla ringhiera con una sigaretta accesa e aspettava la scena successiva. Nella scena successiva Anna è salita su un ramo che si era piegato fino all’altezza delle sue gambe e si è fatta lanciare su un altro pianeta. 

I colpi di tosse, quando arrivano, sono così violenti che rischio di cadere e devo afferrarmi allo sportello; c’è sempre uno sportello a portata di unghie, per fortuna. Mi raddrizzo e riprendo a camminare, vado a prendere il bicchiere d’acqua che dovevo prendere e mi accorgo che il quadro è storto, di poco; l’avevo messo a posto, ne sono sicuro, due giorni fa. Potrebbe essere stata lei. Era sempre lei che scombinava l’ordine degli oggetti, era lei che si metteva davanti al quadro, appoggiava un dito alla cornice e mi diceva che quella curva verde in alto a sinistra – La vedi? – ero io. Lo vedi che ti stai perdendo? La vedi? Io non capivo e lei si rassegnava, non sapeva più come altro dirmelo. Quando allontanava la mano il rinculo del dito faceva inclinare la cornice di mezzo centimetro, forse meno, abbastanza però da far cambiare l’asse a tutta la stanza, da far inclinare il tavolo, la cucina, il frigo, le mensole la pila di cd il lampadario lo stereo il tagliere rotto le bottiglie di vino i sacchetti della spesa la lavagnetta dove ci lasciavamo i messaggi. Il quadro l’avevo messo a posto ieri, no, due giorni fa. Lei potrebbe essere venuta qui mentre dormivo, potrebbe essersi fatta un caffè. Voleva sempre il caffè, anche quando dovevamo spogliarci, era la prima cosa che diceva, Voglio un caffè, Mi faccio un caffè, Ho voglia di caffè, anche dopo che ci eravamo rivestiti. E così ha spostato il quadro. Riesco a vedere sul muro l’impronta che ha lasciato la sua ombra. L’ha fatto apposta, sapeva che me ne sarei accorto. Voleva che sapessi che è venuta, e venendo voleva dirmi che non c’è niente che lei non possa fare. Voleva dirmi Hai visto come i rami si offrono a me? Voleva dirmi In fondo questa storia dei colori che mi hai raccontato talmente tante volte è una stronzata, una stronzata così grande che non so come tu faccia ancora a parlarne.

Le tazzine sono pulite, ovviamente le ha ripulite e le ha rimesse nello stesso posto in cui stavano prima, millimetricamente nello stesso posto, perché non voleva che io fossi sicuro che è venuta, voleva solo che avessi il dubbio che è venuta, voleva che continuassi a vederla, voleva che nella mia testa ci rimanesse una traccia, una scia, anche breve, come il suo nome, nemmeno intero, solo alcune lettere, o una, una A e basta.

Carmelo Vetrano

Il quadro è di Cy Twombly.

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