[Racconto inedito] Un diverso tipo di fuoco, di Giorgia Mosna.
Giorgia Mosna è un’allieva del Penelope Story Lab da qualche tempo; ha seguito corsi, in presenza e a distanza, con Ivano Porpora.
Sta via via rafforzando la sua voce, intelaiandola su un lavoro serio di costruzione delle storie; un suo racconto è stato selezionato tra i migliori 35 del Premio Calvino incipit, il titolo è “Per fare le cose servono i pezzi”.
Noi, si può dire, abbiamo sempre creduto in lei. La differenza nella voce sta nel fatto che pian piano, passo dopo passo, inizia a crederci pure lei.
Questo racconto contiene una delicatezza, e, mi vien da dire, una mollezza delle descrizioni da autrice.
E questa, ormai lo sapete, è la cosa più bella che leggerete oggi.
Con Piero erano rimasti amici anche se lo vedeva soltanto alla fermata dell’autobus.
Continuava ad avvicinarsi a lui come fa chi si fida, ignorando o fingendo di ignorare che le loro vite avessero preso strade diverse. Quando lo vedeva arrivare sotto la pensilina con lo zaino appeso alla spalla, Corrado finiva di fretta il cappuccino e usciva dal bar. Si avvicinava ostentando sicurezza, guardando solo lui: i capelli neri, la pelle appena abbronzata dagli allenamenti sulla neve, le lentiggini. Lo salutava aprendo il palmo e poi faceva dondolare il braccio per accogliere il cinque che Piero aveva adottato ultimamente come saluto. Se aveva una cicca in bocca – cosa che accadeva praticamente ogni mattina – Corrado se la faceva passare per accendere la propria. Era una specie di rito, lui che estraeva il pacchetto dalla tasca dietro e incoraggiava lo scambio con un movimento rapido di indice e medio. Sapeva che per lui non ci sarebbe stata nessuna speranza, ma lo inteneriva avvicinare la punta di brace di lui alla propria, spenta e ancora fredda. Guardava ipnotizzato il fuoco del tabacco dell’amico propagarsi alla punta della sua sigaretta tremante, attendeva il crepitio della prima combustione e poi tirava, stringendo le labbra attorno al filtro per far partire l’incendio.
Aveva sempre ben presente la sagoma dello zippo che dalla tasca del jeans gli premeva dolcemente contro l’inguine, ma lo stesso chiamava a sé il fuoco dell’amico, inchinandosi, e poi si tirava dritto molleggiando nervosamente sul ginocchio sinistro mentre sorrideva, senza sapere mai bene cosa dire, o meglio, sapendolo, cercando di non farlo trapelare dalle guance, dagli occhi, dalla postura. Per questo il collo irrigidito, le guance immobili, il fumo espirato di lato.
Con Piero, Corrado buttava in alto la prima boccata della giornata, e mentre l’amico gli raccontava delle lezioni e dei compiti in classe, lui osservava le volute di fumo uscirgli dalla bocca, avvitarsi in una danza disperata, perdere gradualmente consistenza, fino a quando tutto spariva contro il bianco delle nuvole: maggio era un tempo sempre mite quell’anno, più fresco del solito e il cielo sempre coperto, specie la mattina, e il porfido a terra lucido di umidità.
Per questo, si era detto poi alla ricerca di una giustificazione. Doveva essere scivolato. O forse era inciampato contro un sanpietrino sistemato male, quei lavori finiti mai che tutti nel quartiere guardavano con disappunto e rassegnazione. Rideva, quando sentiva questi commenti al bar, i vecchi soli attaccati al bianchetto. Ma quella mattina Corrado aveva sentito il proprio asse spostarsi nel vuoto, e nella leggera vertigine si era visto cadere, il corpo scomposto, la tuta da lavoro sporca di pittura, i ciuffi abbandonati sugli occhi. Nell’assenza di gravità, il tempo si era dilatato lasciandolo sospeso a mezz’aria: il giaccone si era aperto fluttuando, i pantaloni avevano smesso di insistere all’altezza delle ossa del bacino, le tasche si erano spalancate e così, inerme come una sconosciuta creatura marina, Corrado era stato risputato dalle forze terrestri ed era atterrato su un fianco a pochi passi dalla pensilina, esplodendo il proprio contenuto a terra.
Il portafoglio si era spalancato e le monetine si erano sparse tutte intorno. Si era fermato ad ascoltare. fino all’ultima moneta, che aveva esaurito la sua energia sotto la panchina.
Poi, il dolore al gomito lo aveva fatto rientrare in sé.
Gli era sembrato di rimanere a terra per un tempo infinito a considerare il rumore delle suole di quelli che erano corsi in suo aiuto. Li aveva scacciati tutti, affannandosi a raccogliere quello che aveva perduto. Quando aveva visto il proprio accendino davanti ai Doc Martins di Piero era rimasto immobile e poi si era tirato in piedi goffamente, sorpreso del proprio peso, passandosi le mani nei capelli tutti disordinati. Riprendendosi da quel capovolgimento aveva cercato l’amico con gli occhi, avvampando di calore per il sollievo imprevisto e profondo che aveva provato quando lo aveva messo a fuoco in mezzo agli altri che tornavano ai loro affari. Piero aveva dato un calcio all’accendino.
“Chissà di chi è questo…” aveva mormorato e poi aveva continuato a fumare, guardandolo dritto in faccia, sorridendo. Corrado era arrossito e aveva sentito le pupille dilatarsi in modo esagerato come a voler assorbire in modo definitivo quello che vedeva: ai capelli neri dell’amico, alle sue lentiggini struggenti si era aggiunto un guizzo di muscoli nuovo, che faceva spiccare precisamente la linea tagliente della mascella.
Non gli era mai sembrato così bello, e con quella bellezza addosso Piero aveva raccolto lo zaino da terra e se lo era sistemato stretto alla schiena; arrivava l’autobus e tutti erano in scompiglio.
Corrado se ne era accorto allora, della scintilla che passava da un compagno all’altro, un diverso tipo di fuoco: piccoli gesti delle mani dati sui fianchi, sorrisi smorzati, parole inghiottite dal generale tumulto.
“È lui?” aveva chiesto uno biondo, dando di gomito a Piero con troppa confidenza.
”È questo quello che mi hai detto?”
Piero aveva annuito ridendo, come se non ci fosse nulla di strano ad avere un amico così, come se poi potessero esserci presentazioni, e altre cose ancora da venire, cose future: il gelato al bar Mario, altre partite a pallone come succedeva da bambini. L’estate era vicina, il lido a due passi, chissà. Ma mentre annuiva aveva buttato la cicca per terra e l’aveva schiacciata con ostinazione, ruotando la punta del piede per essere sicuro.
Piero lo aveva salutato chiamandolo per nome, come non faceva mai. Le porte si erano spalancate con uno schiocco ed erano saliti tutti, e lui era rimasto l’unico a terra, immobile, a guardare Piero che continuava a ridere dietro i finestrini appannati senza voltarsi.
Le portiere si erano richiuse e l’autobus si era staccato dal marciapiedi sbuffando. Corrado lo aveva fissato fino a vederlo scomparire alla rotonda in fondo alla strada, poi aveva raccolto l’accendino da terra e si era acceso una sigaretta che aveva fumato chiedendosi perché mai i muscoli attorno alla bocca gli tremassero tanto. Aveva ascoltato attentamente lo scricchiolio del tabacco morire tiro dopo tiro, e a ogni boccata aveva rilasciato il fumo piano, rimanendo con la testa rivolta verso l’alto fino a quando le lacrime si erano asciugate in una traccia di sale al bordo degli occhi, e il suo fumo e quello dell’autobus si erano innalzati uguali, per sciogliersi allo stesso modo, contro le nuvole.
© Giorgia Mosna