Ruanda mon amour, di Giorgio Ghiselli.
Il racconto Ruanda mon amour, di Giorgio Ghiselli, ha vinto il concorso Tracce, categoria C (30+).
CLASSIFICA FINALE DELLA CATEGORIA C, CONCORSO TRACCE.
1. Ruanda mon amour, di Giorgio Ghiselli
2. Carrot cake, di Eleonora Bassi
3. Bianco, di Chiara Cerri
Io in Africa c’ero già stato, ed è lì che ho imparato a odiare i negri.
Ero l’unico bambino diverso, Kasungu mi chiamavano: la cosa bianca.
Quando arrivo all’uscita dal Terminal 2 l’autista con il cartello che riporta il mio nome mi aspetta nella sua uniforme nera. Usciamo e il rumore, la puzza e la polvere mi fanno rimbalzare indietro di anni. Mi lascia all’Hotel des Mille Collines, dove incontro l’emissario del Rwanda Patriotic Army, la milizia che controlla le miniere di Coltan ai confini con il Congo, nei pressi del lago Kivu. Il Generale Theodore si presenta in mimetica ed è accompagnato da due miliziani e due ragazze poco più che adolescenti, la mimetica è nuova ma ha macchie di sangue che sembra siano state aggiunte di proposito. Ordina un whisky e mentre parla, guardandomi fisso negli occhi, allunga le mani sotto la minigonna alla sua destra accompagnando il gesto con un sorriso bianchissimo. Seguendo la mano che si insinua tra le gambe della ragazza mi sorprendo a non provare né imbarazzo né fastidio, solo una fitta alla nuca. L’incontro si chiude con gli accordi per visitare la miniera il giorno successivo. Salgo velocemente in camera, finisco in un sorso solo la mignon di Johnnie Walker del minibar ripensando l’immagine di poco fa: lo stesso brivido. Non mi eccita il corpo della ragazza, le sue gambe, la pelle lucida, nera. Quello che mi eccita è il desiderio di provare il potere del Generale: quello di allungare una mano tra le gambe di una ragazzina davanti a polizia, ambasciatori, banchieri e diplomatici senza che nessuno possa azzardarsi a dire nulla. Queste immagini mi rimbalzano in testa mentre il cuore accelera e sento un’erezione riempire i miei boxer. Mi butto sul letto e provo a cancellare queste immagini sostituendole con qualsiasi cosa possa distrarmi. Alla televisione stanno trasmettendo una vecchia partita di calcio, tra qualche settimana inizierà USA94, dopo un po’ la stanchezza arriva e riesco ad addormentarmi.
La mattina dopo scendo a far colazione ma ho lo stomaco chiuso, bevo solo un caffè. Sono già fuori da più di un’ora quando la Mercedes arriva a prendermi, tre ore passate nel silenzio totale e l’auto finalmente si ferma davanti ad una tenda. Una passerella rossa ricopre la terra nera e fangosa, all’interno trovano spazio poltrone, divani e un tavolo pieno di carte e planimetrie, cibo e bevande per lo più alcoliche. Ancora non capisco perché sia il Generale a trattare essendo lui a capo di una milizia irregolare e le miniere di proprietà governativa. Mi propone un giro di perlustrazione e, controvoglia, accetto. La prima cosa che mi colpisce è la quantità impressionante di bambini che scavano queste miniere a cielo aperto, i più fortunati con vanghe e picconi, gli altri con le mani, completamente insanguinate. Tutto attorno agli scavi i soldati controllano che in quel formicaio brulicante nessuno si fermi nemmeno per un istante. Il piazzale poco distante è per metà occupato da una pila di sacchi sporchi, alcuni miliziani corrono urlando e sparando colpi in aria verso un convoglio che si arresta e dal quale scendono decine e decine di bambini pronti ad essere gettati nel buco. Il Generale spiega con un sorriso soddisfatto che quotidianamente fanno il giro dei villaggi per rastrellare nuova manodopera, ora che siamo più vicini mi accorgo che quelli che sembravano sacchi altro non sono che i cadaveri del giorno, bambini e uomini ammassati come nelle foto dell’olocausto. Mi indica un punto oltre la collina “là c’è una fossa comune, li buttiamo e cospargiamo di calce, di tanto in tanto, quando la fossa è piena, un po’ di benzina e li bruciamo per creare spazio ai nuovi arrivati”. Accompagna questa ultima frase con una risata che mi sorprendo a condividere. Chiedo di vederla, il tragitto con la jeep scoperta è breve e l’odore, anche se mitigato dalla calce, è prepotente. Senza scendere dall’auto mi alzo in piedi e guardo, il mio viso si rilassa e si riempie di soddisfazione, il mio pensiero finalmente si libera: morite tutti negri di merda, morite giovani e finitela di impestate il Mondo. Lo dico ad alta voce, in italiano, e Theodore mi guarda cercando di capire. “È tutto ok” gli dico, sigillando questa nuova amicizia con grandi pacche sulle spalle.
Dopo un paio di whisky il Generale si offre di riaccompagnarmi in città e io accetto di buon grado, almeno il viaggio di ritorno non passerà nel silenzio come all’andata. Non siamo nemmeno a metà strada quando il suo telefono satellitare squilla, parla in una lingua incomprensibile ma l’autorità con la quale pronuncia quelle parole mi impressiona. Chiude la telefonata e chiede all’autista di accendere la radio: musica africana che il generale doppia fischiettando fino a quando un annuncio lo interrompe. Il tono dello speaker è grave, prima in lingua kinyarwanda e poi in inglese: l’aereo presidenziale che stava rientrando a Kigali dalla Tanzania è stato vittima di un attentato, due missili terra-aria lo hanno abbattuto e il Presidente Habyarimana è deceduto insieme al suo staff e tutto l’equipaggio. Nessun superstite.
Il telefono squilla nuovamente e il Generale ascolta in silenzio e poco dopo chiude la telefonata ridendo. Poi, con molta calma, estrae la pistola dalla fondina, toglie la sicura, fa scorrere il carrello e me la punta sul fianco fissandomi negli occhi. Resto senza fiato e la mia urina sporca i sedili. L’auto si ferma, scendiamo dall’auto e ci avviciniamo ad un gruppetto di ragazzi seduti su vecchi bidoni e pietre che fumano e ridono. Il Generale è al mio fianco: “siamo amici ora?” “Certo” “Allora possiamo divertirci insieme- mi dice porgendomi la pistola- uccidili, uccidi tutti questi fottuti Tutsi”. Come in trance prendo la pistola dalle sue mani, mi volto, loro stanno cercando di capire come muoversi, cosa fare, mi avvicino al primo tenendola puntata davanti a me, è a pochi passi, il sudore mi incolla addosso i vestiti, un respiro profondo, so esattamente cosa devo fare, cosa voglio fare: sparo furiosamente, colpisco il primo al petto, vedo la macchia di sangue allargarsi sulla maglietta sporca e poi mi giro verso gli altri, il sangue schizza ovunque, scappano, li inseguo e li colpisco, alle gambe, alla schiena e quando sono a terra alla testa. Uccido questi negri di merda che vent’anni prima ridevano di me, vi faccio vedere io di cosa è capace Kasungu. Theodore mi guarda con soddisfazione, poi mi abbraccia e tenendomi le spalle tra le mani mi fissa “Torniamo a Kigali, c’è parecchio da fare laggiù”.
Arrivando vediamo fumo ovunque, case che bruciano, gente che fugge, altri che li inseguono con i machete insanguinati: è un massacro. Abbasso il finestrino e l’odore della carne che brucia, della cordite, del sangue mi riempie i polmoni. Questo è l’odore della mia Africa, chiudendo gli occhi vengo in un orgasmo improvviso e inaspettato. “Dovrò andare a cambiarmi” dico senza vergogna mostrando la macchia nei pantaloni. Lui ride e dal sedile davanti prende una mimetica ancora imbustata e me la porge, la apro, è della mia taglia, è nuova di zecca ed è già macchiata di sangue.
Giorgio Ghiselli