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PENELOPE STORY LAB
Scuola di scrittura

Sangue e croci sul terreno che fuma.

“Ho i nervi a pezzi stasera. Sì, a pezzi. Resta con me.
Parlami. Perché non parli mai? Parla.
A che stai pensando? Pensando a cosa? A cosa?
Non lo so mai a cosa stai pensando. Pensa.”

Penso che siamo nel vicolo dei topi
Dove i morti hanno perso le ossa.

(T. S. Elliot, Una partita a scacchi)

Non chiedere alle aquile per cosa sono nate, se per il volo o per guardare le terre dall’alto. Il Vecchio risponderebbe che le aquile sono nate per le loro ali; perché le loro ali consentono di stendersi, e di entrare nelle alture.

Questo pensava il Fenicio, le ginocchia spossate dopo la lunga battaglia. Si era chiesto mille volte in gioventù, durante i combattimenti corpo a corpo, quale dovesse essere il gusto della fine del combattimento, quando il sangue allagava i campi e gli urli di battaglia si smorzavano in lamento. Si stupì scoprendo che la sua immaginazione era stata aderente alla realtà, e che di tutto l’aspetto che più gli sarebbe entrato nelle ossa, fino a farle marcire, era: il silenzio.

C’erano stati prima i soldati, che a urla e muscoli e corse avevano impattato le urla e le corse e i muscoli degli avversari. Coperti diversamente, ugualmente rispondenti alla pioggia; ugualmente coperti dal pelo, come fossero stati cinghiali pronti all’ultimo assalto per proteggere i cuccioli rintanati in un cantone. Ora le carni degli altri e degli uni giacevano, gli arti sparsi come fossero stati buttati lì alla rinfusa da un giocatore di dadi; qualche arma luceva, qualche altra segnava la conchiglia dalla quale era stata tagliata e il sangue proprio o altrui che l’aveva definitivamente battezzata.

Solo lì era diventata effettivamente arma, pensò il Fenicio.

Le donne ora giravano, i visi semicoperti, sporcandosi i calzari di fanghiglia e tenendosi la bocca coperta per pudore. Arrivate a un corpo sobbalzavano, lo giravano; sgranavano gli occhi, dicevano Grazie ognuna nella propria lingua, ricomponevano il corpo a tratti chiudendogli gli occhi, tornavano alla loro cerca. Non c’era caso in cui due donne vestite diverse, o col diverso colore della pelle, si scambiassero sputi o insulti; ai loro occhi, rifletté il Fenicio, la pelle e la veste sola erano il dolore, e quel dolore le accomunava là, nel plesso solare, e da quel dolore si riconoscevano sorelle.

Si stupì di notare tutto questo, il Fenicio.

E si stupì di notare i sacerdoti che officiavano il passaggio delle anime, con vesti che segnalavano agli dei il loro Sono io, sono qui. Erano ciechi alle cose della terra, ma i loro piedi erano sporchi del medesimo fango; e quel terreno, sporcandosi le labbra di benedizioni alle loro sole orecchie udibili, lo avrebbero reso sacro per intercessione e non per loro azione.

Si stupì, il Fenicio, di notare che qualche bimbo irrispettoso giocava ai bordi del campo di battaglia, approfittando del fatto che la madre fosse là, lontana, anima indistinguibile tra altre; e che qualcuno di loro, alzando la testa, dicesse Dove vai, papà? verso l’aria indurita della sera. E si stupì di notare che in tutto questo lui era stanco, e la prima cosa che gli balzava agli occhi era un taglio che si era fatto da sé alla mano, e un altro sbrego alla gamba che chissà quando, e dove; e poi anche che anche i suoi piedi erano sporchi di fango, lo stesso dei morti e devi vivi, lo stesso delle donne e dei sacerdoti, lo stesso dei bimbi e degli alberi che accoglievano l’esercito dei morti.

In tutto questo, alla fine di tutto questo, il Fenicio colse le parole che il Vecchio aveva detto tempo prima, a lui in mezzo a mille altri, e che però lui bimbo aveva colto come indirizzate a sé.

Aveva detto il Vecchio: non chiedere alle aquile per cosa sono nate, se per il volo o per guardare le terre dall’alto. Le Aquile sono nate per le loro ali; perché le loro ali consentono di stendersi, ed entrare nelle alture.

E allora il Fenicio capì quelle parole. E capì che la sua città sarebbe rimasta nei secoli perché qualcuno avrebbe fatto il soldato e qualcuno la donna, qualcuno il sopravvissuto e qualcuno il morto, qualcuno il fantasma e qualcuno il bimbo che lo scorge, qualcuno il sacerdote, qualcuno il Fenicio; qualcuno sarebbe stato albero, addirittura, e qualcuno la terra che li sporca uno a uno, e qualcuno finanche il topo che morde loro le ossa; e che la civiltà fenicia sarebbe stata ciò che era, ferma nell’onore e nella storia, finché ognuno avesse fatto il proprio dovere, si fosse sporcato i piedi, avesse teso la propria ala.

Questo pensò il Fenicio, quel giorno, fino a notte.

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