A volte mi chiedo come si possa parlare – scrivere – di un romanzo senza conoscerlo a memoria.
Come con una canzone toccherebbe saperne tutte le cadenze, ogni verso, l’armonia intera, le pause, le sospensioni in cui pensi (in cui credi, anche se sai che così non è. Hai le pagine tra le mani, lo vedi bene che ne hai ancora: eppure) che sia finito e invece no, ricomincia – o comincia – e nella canzone se ne affaccia un’altra, una storia ne racchiude un’altra, una parola ne insinua un’altra che sembra la stessa ripetuta ma non lo è, è un’altra, e l’altra un’altra ancora. Del resto è proprio il figlio piccolo della famiglia protagonista di Sette opere di misericordia (Neri Pozza ed.), Nicola Imparato, a scrivere sul suo quadernuccio – narrazione nella narrazione, di più, scrittura nella scrittura, in pagine che punteggiano il romanzo quasi a fargli prendere fiato, o forse a farlo prendere a noi – che “Se io dico: luna e Saverio dice: luna, non sono sicuro che parliamo della stessa cosa. Nelle parole ci sta pure il sentimento. E il sentimento è una cosa personale” (p. 69).
Quando rivelo a Piera di aver non solo segnato questo passaggio ma di averlo copiato pari pari sul mio taccuino i suoi occhi (c’è una sola cosa di cui sono grata a questa pandemia: il cambio di prospettiva che ha generato cancellandoci la faccia per lasciarci nudi, vale a dire tutti tutto sguardo) si spalancano e un po’ ridono davanti al mio stupore per quella che in fondo – e ha ragione – è un’ovvietà. “Le parole”, mi dice, “hanno una funzione evocativa. Per te, chissà, ‘collina’ è solo un monticello di terra; per Pavese è madre, famiglia, è il fulcro del suo cuore. O ‘tazza’, che per i più vorrà dire solo tazza mentre per me è mio nonno e da lì, da Antonio, si apre un mondo”.
E di parole che aprono mondi, nel romanzo di Piera Ventre, ce n’è a bizzeffe: da quelle prese in prestito, o avute in dono, dal napoletano – le varchetelle che si dondolano sul mare e la cui grazia, dolcezza e immediata nostalgia non poteva essere contenuta in semplici barchette, perché le barchette sono un’immagine, le varchetelle una visione – a quelle contenute nella lettera a un personaggio ormai cieco che gli saranno lette a voce alta, sì, ma cambiandole e stravolgendole per negarle e riuscire a far sì che la dannazione possibile, sempre in agguato (tra le pagine del romanzo come nelle nostre vite) e destinata a rinchiudere chi scrive e chi legge in una gabbia di dolore (e dire gabbia, ora, non è la stessa cosa che caiòla) spalanchi invece un mondo di innocenza e diventi salvezza. Così com’è o vuole essere salvezza quella che Lucia cerca di offrire a sé stessa, al figlio, al marito e, in fondo, anche al piccolo Alfredo Rampi incastrato senza scampo nel pozzo buio di Vermicino con una mossa brusca quanto, purtroppo, inutile; spegne il televisore, interrompe la cronaca di una salvezza, invece, mancata e rimanda la resa. Perché Lucia, con i cento anni che le si erano d’un tratto posati sulle ossa e sopra al cuore (p. 411), altro non sa né può fare.
Già, l’innocenza, la condizione di chi non nuoce. Basta, per essere buoni, essere innocenti? E soprattutto, che cosa significa essere buoni?
Così come lui stesso non era sempre buono, ragiona Nicola (chiamato a scrivere alla lavagna, divisa in due da una riga di gesso, i nomi dei suoi compagni di classe a seconda di come si comporteranno in assenza della maestra), lo stesso doveva avvenire per i cattivi, che dovevano pure tenerlo un pizzico di umanità. Perfino il cane più pacifico del mondo se offeso da uno sgarbo poteva mostrare i denti. Allora, anche quando scriveva i nomi dei compagni nel riquadro incriminato della cattiveria, s’affrettava a cancellarne le tracce non appena sentiva i passi della maestra […] E quelli non pensavano che l’avesse fatto per bontà, bensì per vigliaccheria. Dunque, la realtà era assai più complicata rispetto alla limpidezza di una linea verticale […] (p. 37).
“Dovremmo avere l’onestà di capire”, mi dice Piera dopo che le ho riletto pure questo passaggio, “che in noi c’è tutto, anche pensieri cattivi, anche pensieri inutili. Che cosa ci fa migliori, vuoi sapere? La capacità di essere fallibili. Con questo non giustifico il male, mai: ma tengo lo sguardo fisso sulla responsabilità. Il mio, però, non quello di Nicola, che infatti non la voleva, quella responsabilità, non aveva fatto niente per ottenerla. Attraverso di lui il discorso si allarga. Torniamo sempre qua, al potere della parola e alla mutevolezza dei suoi significati. Per quanto si possa cercare di condividere l’esperienza credo che comprendersi davvero sia difficile, se per farlo ci si affida solo alle parole. Di inequivocabile, alla fine, forse ci sono solo i gesti.”
Sembra tutto così semplice, parlandone con Piera. La complessità, nel suo romanzo, non è infatti data dalla trama ma dall’ordito: non è la storia, che pure procede tra eventi, flashback, rivelazioni, scoperte e conflitti, non è la storia – che è sì storia di una famiglia ma anche di una città, di un terremoto, di un amore e di un disamore, anzi più d’uno, e di radici e di sradicamenti – ma la scrittura a svolgersi e riavvolgersi, annodarsi e srotolarsi, attorcigliarsi sinuosa in strade e piazze che sembrano davvero trovarsi fuori dalla finestra, stratificarsi e dipanarsi fino all’ultimissima riga. È lì la vera meraviglia delle sue Sette opere di misericordia, la più segreta e insieme la più evidente, nelle parole e nelle cose – le parole che non saranno gesti ma sono cose, e quanto: dalla prima all’ultima. Laika perduta nello spazio non è meno viva della Laika di pezza. Il basilico nella pianta sul davanzale profuma veramente. I vestiti donati dalla carità pelosa del Nord diventano costumi di scena per un teatro di sfollati che stringe il cuore. L’acciottolio delle stoviglie che Luisa sistema in tavola risuona in sottofondo alla nostra lettura muta. E questa volta il mare, anche se trasformato in fango instabile sotto i piedi di Lorenzo da onde che sono sisma e grida, bagna Napoli.
Intervista di Fiamma Lolli. La foto in evidenza è di Antanas Sutkus.
SCHEDA TECNICA.
Sette opere di misericordia, di Piera Ventre.
Neri Pozza, 2020.
414 pagg., € 19.
Il libro sul sito Neri Pozza.
La pagina Wikipedia (en) di Antanas Sutkus.