Io questa storia la sono venuta a sapere mezz’ora fa. Un ragazzetto che camminava lungo la via di Viadana, apparentemente per andare verso la piazza, e passando dai giardini vecchi, è inciampato in qualcosa; caduto.
Ero lì vicino, e più per istinto che gentilezza gli ho porto la mano. Si è alzato e ha zoppicato; ma l’idea che mi son fatto è che quella zoppia venisse da prima e fosse causa, e non effetto, della caduta.
Ho rallentato il passo per stargli vicino, sai mai che cadesse ancora. Ma arrivati al monumento ha tirato a sinistra, per andare verso la videoteca; mentre ero incerto sul da farsi mi ha detto: Vieni.
Mi ci sono affiancato, e mi ha raccontato questa cosa, senza preamboli. Le do delle virgolette pur senza aver registrato: ho la sensazione di scriverle sotto dettatura, e sono ancora qui con me, tutte.
“Mio nonno si chiamava Elpidio. Era nato in un paese tra il veronese e il mantovano nel marzo del ’24; aveva una macchia sulla faccia che quasi gliene copriva mezza, e allora si scelse come nome L’Òra, l’Ombra, prevenendo altri soprannomi volgari. Non era abile alla battaglia: quando venne a stare a Pomponesco aveva tredici anni, suo padre era già morto da sei, lui aiutava nei campi, era analfabeta e aveva una gamba lesionata da un pezzo che si era staccato da un’auto in corsa. I suoi coetanei commentavano il mondo che cambiava, andavano a scuola e salutavano col braccio teso. Lui aveva già capito chi andava salutato così e chi col Ciao, e un paio addirittura col pugno chiuso, ma attento che non ci fosse nessuno, o con un Sia lodato Gesù Cristo; ma questa era questione di opportunità, perché per il resto l’uno e l’altro e l’altro e l’altro ancora significavano: Ciao, ti riconosco.
Fumava già, ma di solito in prestito.
Quando la guerra era vicina a scoppiare, si innamorò di nonna. Lei aveva solo due anni in più, e quella peluria sotto il naso che le ragazzette ancora non hanno imparato a gestire. Cantava come un angelo, senza particolari sforzi; sapeva leggere bene, faceva la ragioneria a Viadana e ci andava passando per le stradine laterali. Quando arrivava al campo dove lui già lavorava da due ore, allungava la gambata; e lui, che era analfabeta ma non stupido, prese a controllare le ombre e quando erano giuste si metteva quasi al bordo del fosso, ad aspettarla.
Non si dicevano niente. Era il mondo in cui l’amore era inesperto, e sapeva ancora della differenza tra l’aria prima che lei passi, un filo sudata, e dopo. Lui si sentiva mancare il respiro, lei affrettava i colpi sul pedale; quando ormai era sparita lui tornava alle barbabietole, muovendo il passo pesante sulla terra bagnata, strisciando appena la gamba sinistra.
E così anche la mattina, e la mattina dopo.
Un giorno, lei passò che era domenica. Aveva i libri nel cestino, come sempre, e come sempre affrettò la pedalata; ma lui capì.
Iniziarono con piccoli messaggi. Lui le disse: Ciao, e lei imporporì.
Poi lui le disse Ciao, e lei rispose: Ciao, che già era avanti di sette metri.
L’amore è fatto così: che prima mostri i lati migliori, e poi, piano, ti viene l’urgenza di mostrare i peggiori. Sei quasi come i cani, che mettono in chiaro nel combattimento che possono essere uccisi; e allora nell’amore ci mostriamo il collo e diciamo: Se devi mordere, per carità, fallo ora.
Lui per la prima volta si mosse, e lei gli vide la zoppia. Non disse niente, se non: Ciao.
La volta dopo, lei arrivò e da lontano lui la vide alzarsi la manica, sempre lunga; e sotto la manica c’erano cinque lividi lunghi a forma di dita.
Poi lui smise di mostrare solo un lato del volto, e le porse l’ombra sulla faccia, come un dono.
Lei giunse con un cerchietto che mostrò un segno indelebile vicino all’occhio, sempre coperto dai capelli.
Quando fu il momento giusto o sbagliato della storia, i trasporti si misero in moto. Aerei tappezzarono il cielo, passando da ovest a est. Questo si vedeva anche nel cielo di Pomponesco, e dai campi di Pomponesco si vedevano auto e tank spostarsi lungo le strade, a passi affrettati, lasciando scie di gasolio e tracce nere; e solo perché non c’era il mare, ché sennò anche là si sarebbe percepito come l’Italia diventava di moto.
Nell’agosto del ’41 lei appoggiò la bicicletta, riparata in un fosso. Gli mise una mano sul viso, e ci si scottò. Il seme di lui le scorse troppo rapido in grembo; e lei provò piacere, sono sicuro, a sentire che qualcosa allagava le sue pareti e intanto la vita di mio padre si metteva in lento moto.
Nel ’42 nonno aveva diciotto anni, già gli mancavano alcuni denti per l’alimentazione sbagliata, aveva il fisico che ricordava un porro, i ciuffi là in alto a coprirgli il cranio. Aveva imparato a scrivere qualche parola, come il nome di lei, Anna, facile; Elpidio no.
Anzi, a pensarci bene Elpidio non imparò mai a scriverlo. Né, pensandoci bene, scrisse mai Anna.
Non arrivò mai al ’42, nonno. Non diventò mai maggiorenne.
Né poté vedere la nascita di mio padre.
Non si perse niente, peraltro. Mio padre non nacque mai, né fu mai concepito: non fecero mai l’amore, nonno e nonna.
Nonno Elpidio fu ucciso da un colpo sparatogli per un saluto sbagliato nel ’40, e aveva sedici anni soltanto. Aveva il fisico di un porro, già, e quando lo trovarono con la bocca aperta gli mancavano dei denti, guardava in alto nel cielo. Aveva fatto in tempo a vedere i lividi di nonna. Nonna, poi, seppe che fine aveva fatto Òra, L’Ombra, e non si diplomò mai; ma quella bici lavorò in gloria nella tratta tra Dosolo e Casalmaggiore, tante volte che quelle gambe le crebbero forti fino al 1944”.
“E tu?” gli ho chiesto, mezz’ora fa.
“Io, mi vedi” ha detto. Si è girato verso di me. E gli ho visto la gamba offesa, e una strana macchia sul volto mentre il suo volto si dissolveva, e con lui la macchia, la gamba, tutto.
A volte nel cuore sentiamo solo piombo, come Òra, un giorno dei suoi sedici anni.
Aveva un fisico a forma di porro, una gamba sbagliata, e salutava. Salutava a volte sbagliato; ma salutava sempre.
