La vita delle persone è una menzogna.
Fin da bambini ci insegnano la nostra età. Impariamo a fare due con le dita, e poi cinque, e poi diciamo otto e veentisette; ma ci sono anni di vuoto e anni di pieno, anni che valgono: zero, e anni che valgono: due, e quella che decliniamo non è altro, in realtà, che una media tra gli uni e gli altri.
Avrei voluto dormire per anni interi, a volte. A volte, non farlo mai, sfruttando quegli anni là per coprire questi.
Per quanto concerne gli altri…
Il signor Forni era nato vecchio. Lo ricordo che avevo, tipo, cinque anni. Lui era anziano, e ingobbito – realmente: piegato a punto di domanda – dal lavoro degli anni. Ci guardava da questi occhiali che parevano vetrini del microscopio, e dovevamo apparirgli grandi e minuscoli insieme; e aveva la pelle scottata dal lavoro in piscina, e un modo di fare rude, la parlata reggiana secca.
Non faceva altro, tutto il giorno. Per me era l’uomo della piscina; e non c’era verso di fare il bagno quando c’era lui, che ti cacciava perché doveva pulire. Nella mia mente di bambino era un’autorità, il re del cloro; l’unico che potesse maneggiare i detersivi che stavano al di là delle siepine, e se per andare in bagno dovevi saltare gli scopettoni che lui ci piazzava di fronte, la chiamavi sempre: sventura, e mai: disordine.
Già allora aveva i capelli bianchi e la pelle di velina stropicciata, e andiamo indietro di trentacinque anni. Ho sempre avuto il sospetto che per noi, e per me in particolare, provasse una forma di affetto particolare; l’affetto degli schizzinosi che non fa dire mai una parola, ma fare un gesto, uno, che spiega: tutto.
Quel giorno il suo gesto fu: Vieni.
Mi disse: Vieni, e io lo seguii, perché se un adulto ti dice di fare una cosa, e in più un’autorità, la fai e poi ci pensi. Quante volte sarei potuto cadere in gabbie più strette di me, a farci caso ora; ma non accadde mai.
Arrivammo al suo garage. Era ordinato, a differenza del caravanserraglio del nostro, il nostro in cui sarebbero potuti vivere boa constrictor, tarantole e fin alani, ma che ospitava la portiera di una macchina che poteva sempre servire, e diverse biciclette che nessuno usava mai, camere d’aria allungate a formare serpenti, gonfietti che non gonfiavano, vino che sarebbe stato bevuto, una damigiana alzata e una vuota, guarnizioni, viti.
Da lui no: pareva che l’ordine fosse costituzionale, in lui, e solo lo scompagnava questa scatola che prese dall’alto, forzando la gobba, e mi porse.
Conteneva una nave spaziale.
Io gli chiesi per chi fosse; lui sorrise, e credo che in quel momento gli diventai anche più simpatico.
Gli anni passarono, e passarono ancora. Alcuni valsero due, per me e per lui. Altri, due per me e zero per lui, e altri viceversa.
Io non lo so. Io oggi sento le dita che picchiano sui tasti, ho una bottiglia di Sant’Anna accanto a me, un pacchetto di ciccioli semivuoto sul tavolo, bisogno di compensazioni nella mia vita per le tristezze che la compongono. Di fronte a me ho un giardino, un giardino nel quale ogni tanto compare un cane. Di giorno, o sera, mi spoglio nudo, e scrivo a volte così, a volte no. A volte semplicemente cammino per casa, così; e lo faccio perché fa freddo, e la pelle che si restringe e si fa d’oca mi ricorda che esistono i sensi, e finché esisteranno i sensi io ci sarò.
Qualche giorno fa sono passato davanti agli annunci funebri. Ce ne sono sempre quattro, alla bacheca, e una volta c’è stato mio padre, una volta mia nonna; ci sarà un giorno in cui ci sarò io, ma stavolta c’era lui.
È morto che aveva 85 anni, o lì intorno. E ho realizzato che il vecchio, che per me era sempre stato vecchio, aveva cinquant’anni quando lo conobbi. Cinquantuno quando mi regalò la nave spaziale, con la quale giocai pure poco – è che non me la ricordo: forse si ruppe subito, forse aveva pezzi troppo piccoli, può darsi.
Io voglio pensare che quando moriremo, le cose che abbiamo regalato agli altri ci torneranno. A mia madre regalai un tappeto di bucaneve, a Pejo, e quando morirò sul mio tappeto non ci sarà scritto: Mamma, forse, ma: Ivano. A mio padre regalai una cassetta di De Filippo, e fu causa di una furibonda lite; quando morirò, forse, invece che la mia vita guarderò Gli esami non finiscono mai, e sarà ironia. Torneranno ai prati, quando morirò, i fiori di prato che ho staccato, chiedendo ai fiori di permettermi il loro stelo e quel che restava del loro profumo. Torneranno le ore che ho dedicato a persone che ho amato, ore che a volte mi vengono chieste come risarcimento, quando per me un dono non avrà mai: risarcimenti, perché non ha: prezzi. Torneranno gli sguardi amorevoli di chi mi ha amato alle persone che mi hanno amato, e torneranno le tre paste che comprai in stazione per mio padre, che un padre morente con un fegato andato non può mangiare paste, ma furono le paste della stazione Garibaldi a Napoli; e per me quello è uno stracazzo di dono.
E tornerà, a lui, quell’astronave spaziale. Era bellissima.
Voglio pensare che io non l’abbia mai persa, ma che si sia nascosta in un angolo, spostata durante i traslochi, sintonizzata sul suo respiro; e quando il signor Forni non ha respirato più è giunta, finalmente, gli ha detto “Sono trentacinque anni che aspettavamo, andiamo”, l’abbiano caricato, e se lo conosco ora nelle stelle le guarda e non dice niente, ma pensa.
