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PENELOPE STORY LAB
Scuola di scrittura

Storie incredibili ma vi giuro vere. L’uomo che pioveva per le strade.

Lavoravamo per la stessa agenzia di assicurazioni: un ufficetto al primo piano di via Cavallotti, con il pavimento sconnesso, un lungo corridoio che portava alle tre camere e alla cucina – la cucina l’avevamo mantenuta, nelle camere rispondevamo alle telefonate e tenevamo computer dalle ventole eccessivamente rumorose. In cucina avevo anche dormito un paio di notti, ai tempi del mio primo divorzio: poi lei mi aveva detto “Puoi prendere il divano, ma esci prima che mi svegli”, e ci sono momenti della vita in cui questo è bellissimo.
I clienti, eravamo stati invitati a non riceverli mai in agenzia. C’era un bar, là sotto: avevamo un accordo per riceverli lì, con pretesti da ruotare all’occasione.
Lui arrivava ogni mattina, stazionando davanti allo zerbino per un paio di minuti. Appoggiava l’ombrello accanto agli stipiti, sbatteva le suole con forza, si toglieva l’impermeabile fradicio; se lo poneva sul braccio, passava la mano – enorme – sulla pelata, cercando inutilmente di asciugarla e poi di asciugare la mano sulla giacchetta d’un verde quasi grigio. Poi entrava, salutando appena tutti e mettendosi di buona lena a compilare le proprie pratiche fino alle 5.30, quando sempre senza salutare usciva.
La cosa strana di quest’uomo è che giungeva sempre bagnato, quale che fosse il clima. Anzi: a volte ci pareva che, nei giorni di sereno, bagnato lo fosse anche più.
Mi guardavo con la mia collega, quando entrava. C’era stata una piccola storia, tra noi, che si era ridotta a una miniaturizzazione di un rapporto d’amore in cui solo col sesso eravamo riusciti a parlare; poi aveva cominciato a truccarsi troppo, si era coltivata un’orrenda frangetta che quasi le copriva le palpebre, e comunicava con me tramite sì e no. Solo quel sollevamento di sopracciglia quando il collega arrivava stracciato da testa a piedi – come si chiamava? Ora non ricordo – rientrava nei residui di un lessico che tenevamo, chissà perché.
Poi lui ci salutava, e tornavamo ai nostri compiti. Ogni tanto uscivo sul balcone a fumare una sigaretta; lei aspettava che rientrassi per fumarsi la sua.
Un giorno, stavo per chiudere le finestre dall’esterno per evitare che il fumo entrasse, lui uscì.
“Me ne presti una?” fece; e si mise a fumare con me.
Aveva un modo stranissimo di fumare, che lungi dal rifletterne l’inesperienza, sembrava approcciarlo all’estremo godimento del tabacco. Prese la sigaretta tra medio e anulare, levando appena il mento per poter tirare e soffiare un filo più alto; allargò il gomito, e i tre secondi di inalazione mi parvero quanto di più vicino avessi mai visto riguardo a ciò che qualcuno chiama il nocciolo dell’uomo.
Prese a uscire con me tutte le volte, e fumavamo insieme; e mai, ricordo, mi venne in mente di chiedergli per quale motivo giungesse bagnato al lavoro.
Passò forse un anno, forse di più. Non avevo una gran cognizione del tempo. Avevo affittato un bilocale in via Chopin, a un passo dal quartiere Orefice, e di tanto in tanto ospitavo un’amica.
Le amiche, cambiavano spesso. Credo incontrassimo i reciproci desideri.
Un giorno, l’uomo giunse asciutto. Era senza ombrello, ed era primavera, quasi maggio. Strofinò i piedi sullo zerbino, si tolse l’impermeabile, mise una mano sulla pelata: sorrise, quasi confuso della familiarità del gesto.
La mia, diciamo, ex amica fece una smorfia che dovette ritenere appropriata ma che risultò forzata. Credo se ne accorse: abbassò il viso, ma mio malgrado restarono nell’aria le tracce di quel movimento – diciamolo – stupido.
Andai sul terrazzo: giunse pure lui.
Gli allungai una sigaretta; “Sì” disse, e ripeté “Sì” come se alla voglia di sempre si fosse aggiunta la foia.
Fumammo a lungo, e il cielo minacciava temporale.
Buttai il mozzicone a terra; lo spensi girandogli sopra la punta della suola un par di volte.
“Se n’è andata ieri”, fece.
“Hmmm” risposi.
Mi appoggiai di nuovo alla ringhiera.
Restammo a guardare le auto che passavano.
“Almeno ora sei asciutto” dissi, sorridendo.
Senza restituire il suo, mi guardò, diede l’ultimo tiro. “Mi hai mai visto schivare le gocce?” fece.
E rientrò.
Da allora non tornammo mai più sull’argomento. Ma ogni sera, tipo: ieri, guardo il cielo dalle finestre del mio appartamento di via Chopin.
Quando vedo una nuvola, spero che il vento la porti di qua.
Per lui, dico.

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