Sono diversi giorni che per vari motivi, non tutti professionali, penso ai dialoghi. Ce ne sono di diverso tipo, non tutti ascrivibili alle diverse categorie delle scuole di scrittura. Uno, per esempio, è il dialogo pimpato (da pimp, e non Pimpa): il dialogo che sotto è fatto di noia e sopra ha una fiammante vernice rossa. Tipo una 131 che ti sembra pronta a rombare per i viali, ma alla fine, dài, è una Fiat 131 tirata su a Mirafiori.
Un altro è il dialogo del nulla. Lo ebbero Stanlio e Ollio, ma non mi va di spandere poesia qui. Ma lo ebbero anche due signori del vico sotto casa di nonna, a Napoli – esattamente a Castellammare. Uno dei due aveva una quasi totale afonia causata da un intervento alle corde vocali, era tracheotomizzato, zio Antonio diceva che avesse avuto un cancro alla gola; l’altro, francamente, secondo me si annoiava soltanto a parlare. Le uniche parole che gli sentivo dire, infatti, erano: Cafè, quando passavo di lì; e io che manco lo conoscevo dovevo andare al Club Juve Stabia e prendergli un caffè da portare (a Napoli si dice così, o si porta via dentro la bottiglietta di vetro; ma insomma, divago). Questi due passavano le giornate seduti su due vecchie sedie con la seduta in finta pelle, di fronte alla stazione, a guardare la gente passare. Credo che il dialogo più lungo che sentii, sarà stato di trentacinque anni fa ma figurati se non me lo ricordo, fu quando io ero lì che stavo andando in edicola, e passò una bellissima ragazza, intorno ai venticinque.Il canceroso prese l’altro al polso, gli indicò il culo.
L’altro fece il segno: Tanta roba, con la mano.
Il canceroso fece: ‘A ‘ist?, con la voce di ruggine.
L’altro fece un lungo segno di sì con la testa.
Il canceroso fece il segno del corpo femminile, con le mani.
L’altro fece un altro sì, come a dire: E che ci vuoi fare?
Il canceroso fece: Eh.
E l’altro fece: Eh.
E mi mandò a prendere il caffè. Quello fu il primo culo femminile che notai.
