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Scuola di scrittura

L’unica possibilità, di Giovanna Marcianò

L'unica possibilità, di Giovanna Marcianò.

Il racconto L’unica possibilità, di Giovanna Marcianò, ha vinto il concorso Tracce, categoria B (20-30).

Bologna, via Irnerio

CLASSIFICA FINALE DELLA CATEGORIA B, CONCORSO TRACCE.
1. L’unica possibilità, di Giovanna Marcianò (anni 26)
2. Il mare non è un cane da guardia, di Benedetta Barone (anni 28)
3. Grigio e caldissimo, di Viola Giacalone (anni 27)
3 ex aequo. Segni, di Anita Cagnazzo (anni 29)

Sto per scendere dal treno mentre ti scrivo di non venirmi a prendere.
Mi piace ricordarmi le vie e salire sul bus con il numero giusto per arrivare a casa tua. L’ho fatto tante volte senza mai sbagliare.
Stavolta sono venuta da sola, ho approfittato subito del tuo invito e di un’offerta andata e ritorno. Non avevo voglia di aspettare che tuo padre si convincesse ad accompagnarmi e poi sentire che si lamenta per la confusione della stazione. Io ho imparato subito che i Frecciarossa arrivano sottoterra e che una volta scesa dal treno devo solo salire fino all’ingresso principale.
Eccoti al binario 19. Non hai neanche visualizzato il mio messaggio. Ti rivedo di persona dopo tante videochiamate. Mi hai sorriso e mi hai abbracciata. Con le guance sento i tuoi capelli che scendono dritti, le tue braccia definite che mi circondano le spalle. Sei sempre tu. Mi vengono le lacrime agli occhi e mi sembra di respirare meglio. “Una scema che piange sempre” – dici mentre mi prendi dalle mani il bagaglio. “Ti accompagno a casa, poi scappo perché ho un appuntamento con il relatore”. Adesso capisco perché hai dei tacchetti quasi eleganti per i tuoi standard e un cappotto nero che ti copre fino al ginocchio. Strano vederti senza anfibi e sciarpa colorata. Forse perché vuoi diventare davvero avvocata o come vuoi che diciamo.
Prendiamo l’autobus e te la vedi tu per farmi il biglietto con la carta di credito. Non ho neanche un pezzettino di carta da mostrare se passa un controllore. Mi sento una bambina che viene presa da scuola ma ti lascio fare e guardo dal finestrino.
Vedo piccoli pezzi della città che ami: la Montagnola, l’incrocio con via Irnerio e poi portici, negozi, il Nettuno e ancora portici.
Arriviamo a casa e mi dai le istruzioni da seguire. I tuoi coinquilini non ci sono fino all’una. Devo stare nella tua camera, riposarmi, fare la doccia nel bagno che condividi con Giada e aspettarti per il pranzo. “Non devi cucinare niente, a dopo mamma”. Apro la porta della stanza con scritto “Erica” su un foglio appeso. Non è come me la ricordavo: sulla scrivania non ci sono tracce di tabacco e i poster sono stati tolti. Molti di questi erano di band dai nomi impossibili da ricordare. Le coperte aderiscono al materasso e hai tolto il mandala che copriva il letto.
Entro nel bagno e ci sono asciugamani puliti che hai messo per me. Sorrido a pensare al casino che lasciavi a casa ogni volta che facevi la doccia.
Non resisto a entrare in cucina. Questa stanza è piena di oggetti. Ogni pentola viene da una famiglia diversa, i bicchieri e le tazzine sono tutti pezzi unici, ci sono post-it ovunque, alcuni con “le regole della casa”. Non si sa neanche chi ha apposto la prima calamita sul frigo. Noto con piacere che sui fornelli c’è una pentola con il sugo alle melanzane. Vorrei preparare anche qualcos’altro ma non mi va di controllare cosa c’è negli stipetti, in fondo sono solo un’ospite.
Nel frattempo sono arrivati due ragazzi. Mi ricordo bene di Matteo, entra e dice “va bene, amore” all’altro. Mi salutano sorridenti e mi danno della signora. Li fermo: “Io sono Antonella”. Anche il ragazzo-amore si presenta. “Possiamo apparecchiare mentre arrivano le altre”- mi propongono.
Stiamo sistemando la tavola e loro discutono delle poesie che sono state lette a lezione. Parlano come se conoscessero di persona i poeti che nominano. Mi guardano spesso per non escludermi ed essere ascoltati.
Arrivi con Giada.
I ragazzi hanno già messo l’acqua per la pasta e nel frattempo ci aggiorni sul secondo capitolo della tesi. Quello che ho capito è che fate ordine sulle leggi che si occupano di donne che lavorano, di diritti e di tutele. Che la ricerca non finisce mai e che devi cercare altri articoli.
Mentre parli riempi i piatti.
“Ti piace? È come quella che fai tu?”.
Davanti a me una giovane donna desidera che la pasta sia cotta al dente, le melanzane non troppo affogate nella salsa, che la sua tesi valga qualcosa e venga presa in considerazione.
Mi sembra che tutto questo dipenda me, che ho cinquantasei anni e ho voluto una cosa alla volta.
Forse non ho nulla da offrire in questo pranzo dove gli invitati si sentono liberi di aggiornarsi a vicenda, chiedere, rispondere.
Riesco a dire che il piatto è perfetto.
Penso che c’entri con le nostre domeniche e stia bene anche con la vita che hai adesso. Mi ritrovo ad aiutarvi a sparecchiare. I tuoi coinquilini insistono per lavare i piatti visto che hai cucinato tu.
“Va bene però noi vi lasciamo per il caffè, così facciamo un giro in centro”. Ti rivolgi ai ragazzi ma guardi me.
Ti sistemi allo specchio prima di uscire. È strano vederti prendere le chiavi di una casa che non ci appartiene. Anno dopo anno tutto quello che si presentava come temporaneo diventa distanza.
Ci dirigiamo verso Piazza Maggiore in questo primo pomeriggio. Quando ti vengo a trovare ci piace passeggiare nella città anche d’inverno.
Diciamo sempre che fa freddo, ma è un freddo secco, senza quel vento che c’è da noi. Cammini con le mani dentro le tasche del cappotto, sorridi sotto i portici e osservi le scritte sui muri, come se qualcuno le avesse lasciate per te.
“Ma perché ci sono tutte queste frasi?” – ti chiedo.
“Non lo so, è così da sempre”.
“Tu hai mai scritto qualcosa?”.
“No, mai. In teoria potrei essere sanzionabile. Però mi piace leggere tutto quanto”. Infilo il braccio nell’apertura che si è creata tra la tua manica destra e il profilo del busto. Chissà che ruolo ci assegna chi ci vede passeggiare. Se l’unica possibilità è sembrare mamma e figlia.
Arriviamo nel cuore della città.Prendiamo il caffè in un bar e due pasticcini da consumare fuori. Ti siedi sulla gradinata di fronte la basilica e mi metto a fianco.
Guardo la facciata e mi chiedo perché non hanno messo il marmo anche sopra. “Quanto tempo pensi di fermarti qui? Dopo la laurea devi fare un altro esame per l’abilitazione o sbaglio?”.
“Vediamo intanto quando e se mi laureo”. – Mi stronchi.
Cerco di immaginarmi una linea orizzontale tra i mattoncini marroni e la parte rifinita della chiesa. Non riesco a farlo perché non ci sono due metà perfette.
“Non volevo risponderti male. È che non posso proiettarmi neanche a un mese da quello che sta succedendo adesso”.
In realtà nemmeno io. Ti pongo domande a cui neanche io saprei rispondere. “Tranquilla, ne riparliamo dopo”.
La tua testa sulla mia spalla mi sembra il modo giusto per prendere tempo.
Mi accorgo che la piazza è più frequentata dopo la pausa del pranzo. Si sentono pizzicare le corde di una chitarra.
Chiudo gli occhi e questa musica è anche per me.

Giovanna Marcianò

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4 commenti su “L’unica possibilità, di Giovanna Marcianò”

  1. Eh, ma che meraviglia. Ne ho 50 di anni e sono espatriata da 20. Quando viene la mia mamma a trovarmi è tutto come lo descrivi tu. Ovviamente ho pianto, ovviamente vorrei leggere altro.

  2. Molto bello Giovanna , ed è perfetta per me che tante volte ho vissuto esattamente quello che tu racconti, stessi posti, stessa casa, stessa coinquilini, stessa figlia hahahaha

  3. Un racconto intenso, ogni parola scava con apparente leggerezza dentro l’anima di chiunque sia stato uno studente fuori sede.
    Mi ha profondamente commosso ed emozionato.
    Complimenti.

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