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Scuola di scrittura

Bianco, di Chiara Cerri

Bianco, di Chiara Cerri.

Il racconto Bianco, di Chiara Cerri, è arrivato terzo al concorso Tracce, categoria C (30+).

Racconto terzo arrivato nella cat. C del concorso Tracce

CLASSIFICA FINALE DELLA CATEGORIA C, CONCORSO TRACCE.
1. Ruanda mon amour, di Giorgio Ghiselli
2. Carrot cake, di Eleonora Bassi
3. Bianco, di Chiara Cerri

Lasciati andare ragazza. Trova il nome, premi il tasto, suona.

Evgeniy osserva il suo autoritratto nella penombra dello studio: la superficie della foto è increspata, i contorni del viso e lo sfondo dell’immagine si fondono insieme; il ciuffo ossigenato che gli parte dalla fronte, scivola nelle acque del Volga, occhi e sopracciglia disegnano le vette arrotondate dei monti Urali. In un attimo sente profumo di borsch, manzo e alloro stufati, entrargli nelle narici. Rimane in silenzio a guardarsi, così lontano da quel luogo e da se stesso da avere le vertigini.

La ragazza si presenta puntuale, è così bella da far male. Quando entra guarda a terra, titubante. Assomiglia a quella sua compagna di Università dagli occhi azzurri e i capelli di seta. Una visione dal passato, ma non ci prova neanche a ricordare il nome: la memoria è un racconto di fantasia, soprattutto se, come lui, non appartieni più a un dove.

La ragazza oggi ha saltato l’allenamento di nuoto, ci sono le gare tra due mesi, ma lui era stato chiaro in chat: era libero solo quel martedì pomeriggio. Si trova nello studio di un fotografo, uno straniero, in un sobborgo, ma nessuno lo sa e questo le pizzica le guance di piacere. Lo spazio è grande, le vetrate fanno entrare la luce, il pavimento in legno scricchiola, la ragazza cammina in punta di piedi come se stesse schivando delle mine. Vedere tutta quell’attrezzatura in giro la rincuora sul fatto che lui sia veramente ciò che dice di essere.

Ha ventiquattro anni. Vive in un bel quartiere con la madre e la nonna, il padre è morto quando aveva dieci anni. Ha le dita lunghe e affusolate che premono sui tasti di un pianoforte tutti i giorni per un’ora, il corpo nuota flessuoso sotto l’acqua tre volte alla settimana. La ragazza studia e vuole – dice proprio: io voglio – diventare ingegnere biomedico. È decisa, sa quello che vuole, dicono le donne di casa, e le amiche delle donne di casa, e le amiche delle amiche. La ragazza sorride davanti a tutti, ma la notte si mastica un po’ troppo le unghie, fino ad arrivare alla pelle viva; e sempre più spesso, scavalca il recinto del suo giardino, strusciando di proposito i polpacci sul filo spinato.

Evgeniy mette l’acqua nel samovar, è l’unico oggetto che possiede del suo paese: un souvenir. Le labbra di lei tremano, come i muri delle case sotto bombardamento. È la noia che ha spinto Evgeniy a entrare in quel gruppo Facebook, cercava qualcosa che lo distraesse dalla sua ossessione per gli autoritratti, qualcosa che lo portasse lontano da sé, verso un altro dove.

La ragazza ha la pelle pallida, il seno grande, due spilli al posto dei capezzoli. Ne ha visti tanti di corpi di donna, per le campagne pubblicitarie vede donne semi nude e bellissime ogni giorno, ma la pelle di questa ragazza è diversa. A Evgeniy mancano molte cose, da nove anni. Da quando i soldati russi hanno attraversato, per la prima volta, il confine di stato ucraino, per occupare la penisola di Crimea. Era il venti febbraio quando ha deciso di lasciarsi tutto alle spalle.

Non sono un guerriero, quando mi guardo allo specchio non vedo un soldato. Non voglio far parte di questo conflitto, dice a tutti quelli che incontra, mentre fuma una sigaretta dopo l’altra. Evgeniy non voleva combattere. Voleva solo fare il fotografo.

Dei suoi amici non ha più notizie, prima l’Armenia, poi la Giordania, poi l’Italia, quando si varcano le frontiere i fili invisibili che tengono unite le vite si rompono; ma il corpo di questa ragazza è diverso, è una steppa incontaminata, vorrebbe farsi insetto per poterlo attraversare tutto.

La safe word scelta da lei, è: bianco.

Bianco come gli ottantotto tasti pieni del pianoforte, bianco come i campi innevati della Siberia.

La corda scende dal collo e le circonda i due seni, che ora sembrano due piccole palle di fieno, tre giri intorno alla vita che si è fatta più stretta, fino ad arrotolarsi alle mani, unite a fiocco, dietro la schiena. Evgeniy la mette in ginocchio sulla sedia e inizia a fotografare. Click: un raggio di luce le sfiora la guancia pallida. Cambia prospettiva e scatta. Gli scatti della macchina fotografica se chiudi gli occhi sono come spari.

La ragazza ora è in piedi, la corda le attraversa il corpo e le taglia in due il pube, è un po’ stretta e la costringe a piegare leggermente le gambe. Sono le quattro, le sue amiche avranno già fatto venti vasche a stile libero, poi una pausa, l’allenatrice dirà qualcosa per correggere le bracciate. La ragazza oggi vuole tuffarsi in una vasca tutta sua. Bianco, pensa: se ho bisogno dico bianco.

Evgeniy smette di scattare, vorrebbe girare la macchina e farsi un autoritratto, proprio ora che sente il sangue pulsare nelle sue vene, forse riuscirebbe a vedersi tutto, ora avrebbe un dove. Invece lascia la macchina sul tappeto e con la corda dà un colpo sulle cosce della ragazza, e poi un altro, e un altro ancora. Lei stringe la corda tra i denti. Bianco, pensa. Era questo che avevano concordato insieme, ma non è come se lo aspettava, quando lo immaginava si trovava dentro un momento soffice, ora invece è troppo reale. Evgeniy adesso potrebbe anche tirarsi giù i pantaloni, mettersi dietro, basterebbe tagliare la corda, la ragazza direbbe bianco, e anche se lo dicesse lui potrebbe andare avanti. Come fanno i soldati in trincea.

Una volta in un bar di Tbilisi, in Georgia, si sono rifiutati di dargli da bere. Gli hanno chiesto: «Perché sei qui? Perché non protesti contro il tuo governo?». Qualche settimana dopo è scappato dalla Georgia per venire in Italia.

La ragazza sta nuotando in mezzo alla vasca, vuole tornare indietro, ma anche andare avanti, l’acqua cambia colore diventa più scura, più nera. Nera, proprio come i bemolle e diesis del piano. Le alterazioni dei suoni pieni.

La parola risuona nella stanza. In quel momento i continenti si uniscono, creando una strana melma di mare e terra, colore e freddo. Evgeniy vorrebbe essere abbracciato, ma non sa più da chi.

Il freddo del metallo sfiora i polsi della ragazza, le forbici tagliano, le corde si allontanano da lei. Si lascia cadere, con le ginocchia piegate e la guancia appoggiata al tappeto.

La ragazza vorrebbe abbracciarsi, ma non sa ancora come fare.

Scattami una foto – dice Evgeniy – subito, ora.

La ragazza preme il pulsante di scatto. C’è il volto del fotografo dentro, l’espressione stanca, ma i contorni del viso finalmente sono disegnati a pennarello. Sorride guardandosi, per la prima volta da mesi si riconosce dentro un quadrato di pixel. Da qualche parte, in una stanza, qualcuno dice bianco all’infinito. E i suoni pieni, si mischiano a quelli neri e alterati creando melodie complesse. Da qualche parte quando dici bianco, forse, sei in salvo.

Chiara Cerri

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