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Scuola di scrittura

Carrot cake, di Eleonora Bassi

Carrot cake, di Eleonora Bassi.

Il racconto Carrot cake, di Eleonora Bassi, è arrivato secondo al concorso Tracce, categoria C (30+).

carrot cake

CLASSIFICA FINALE DELLA CATEGORIA C, CONCORSO TRACCE.
1. Ruanda mon amour, di Giorgio Ghiselli
2. Carrot cake, di Eleonora Bassi
3. Bianco, di Chiara Cerri

 La storia era questa: me ne stavo all’ombrellone, in silenzio, e il lettino, la sabbia, l’aria era calda, e lo era pure il mare e l’ombrellone e il lettino e la gente. 
La gente, pure.
La gente, sempre.
Dalle 14.00 alle 16.17 la gente al Bagno Onda di Lido di Camaiore spariva tutta nello stesso modo: sciabattando sulla passerella bianca riservata alle file B, C. La passerella ordinava la gente. La gente c’aveva i cani, e i bambini e i gonfiabili, e cani e bambini e gonfiabili e ciabatte si
allineavano in file ordinate: B, C. La fila A non si sapeva dove fosse. La fila A non si ordinava. La fila A chissenefrega. Alla spiaggia la vita degli altri era la vita di tutti, e diventava pure la tua. Le file, durante il giorno, si confondevano, ma non quando c’era da ripartire verso qualcosa: lì ciascuno si riprendeva la propria. Vita di fila B. Vita di fila C. Vita di penultimo ombrellone. Vita sfigata. Le donne sapevano di cocco. Qualcuna di cipria. Altre di Bilboa Carrot. Io sapevo di ananas. C’avevo un olio denso, densissimo, che appiccicava peli capelli sabbia. Aloni sugli occhiali da sole. Passò una barca parlante, e l’aria si gonfiò della pubblicità del Composto Magico per Torta di carote. Così, l’ananas evaporò dalle mie narici, per lasciare spazio a qualcosa di più intenso.

Torta di carote: quella che le mamme dell’asilo Domenico Maria Villa chiamavano “Carrot cake”, quella che la zia Annarosa preparava nei weekend a Talignano, quella che mia mamma no, non la preparava proprio, perché ai bambini faceva schifo. Insomma, avete capito: quella torta lì. Mia mamma faceva la torta coi Rice Crispies e il Mars. Si attaccava ai denti e dovevi scarugare con la lingua dietro alle palette. La mangiavo d’estate, in una camera azzurra che affacciava su un asilo per bambini ricchi. Le mamme dei bambini ricchi si scambiavano la ricetta della Carrot cake ogni martedì pomeriggio, mentre traducevo le versioni di greco. Quando i dettagli cominciavano a diventare troppi, mi sporgevo dalla finestra e gridavo: “Galline, vi tiro il collo!” oppure gridavo: “Che poi è una TORTA DI CAROTE! TORTA DI CAROTE!” Comunque io resistevo, e le mamme continuavano: “Carrot cake: ora ti spiego, è facilissima” oppure: “Io gliela preparo prima di andare in palestra” o “Basta fare…” bla bla. Poi, qualcuna parlava della Sacra Esperienza del Parto. Allora chiudevo anche le persiane, accendevo la luce gialla. Insomma, l’avete capito, che discorsi rimbalzavano sui muri di Via Domenico Maria Villa.

Questo era quello che accadeva fuori dalla finestra. Dentro… be’… dentro c’ero io che studiavo e traducevo, e traducevo e studiavo greco con le cuffie tarocche della Ferrari, quelle che mio padre aveva comprato a Imola, quando il Gran Premio si chiamava “di San Marino”.

Grazie alla Carrot cake presi a immaginare La Madre, La Maaadreee come una figura onirica e onnipresente che conteneva IL TUTTO. Qualcosa che si opponeva al Nulla della Storia Infinita. La Maaadreee era un enorme diagramma di Eulero Venn, con contorni ben definiti, che racchiudeva in sé ogni altra, singola, inutile, millimetrica cosa.

Un diagramma di Eulero Venn onnivoro, con una preferenza particolare per la Carrot cake.

Poi andò così: era caldo, ero vecchia, era settembre. Ero pure malata, e tanto. Bevevo infusi al cocco. Tenevo il Daikin livello Powerful.

Il diagramma prese ad avvicinarsi.

Avvenne a tappe: prima, i miei contorni cambiarono, e assunsi pericolosamente una figura a rombo. Tipo una razza, un aquilone. C’entravano quelle cose che Le Mamme chiamavano “Culo di cavallo”, però in francese.

Anzi, culi.

Quella roba lì ce l’aveva anche la mia Psycho, e, forse per quello, mi diceva: “Sei malata, è normale, i contorni cambiano, non darti barriere, non imporre confini, non essere rigida. Usa gli altri come diversivo.”

Sì, certo.

Io comunque le istruzioni le seguivo sempre, e così mi impegnai nell’Inganno Supremo, e così rimanere a casa non fu “Cerco di non morire”, ma divenne “Posso sorvegliare le vite degli altri”. Traboccavo di informazioni inutili: il nome del postino, quello di Amazon suonava tre volte il campanello, il terzo piano fumava alle 22.38.

Di lunedì pensavo ai morti.

A mio nonno. Una volta a settimana spariva nel bosco. Gli serviva a difendersi dai temporali delle vite degli altri. A stabilire fronti di difesa. Lo dicevano gli altri. I proprietari delle vite.

Il nonno non diceva niente.

Era un bosco fitto, di pioppelle, di un verde lucente, nulla di scuro. Il bosco fiancheggiava il Po. Lì, nessuno ci poteva entrare. Eccetto il nonno.

Si chiamava Bosco della Morta, perché il fiume si perdeva in un’ansa che moriva lì, e non andava da nessun’altra parte. Terminava.

Si poteva scrivere “Al limitare del bosco il fiume concludeva la sua corsa, la sua deriva”. La finestra era il mio bosco.

Finchè un giorno ci fu vento, un vento ostile, privo di grazia. Un vento che sapeva di strade.

E la finestra si ferì. Non me ne accorsi subito.

Prima il vetro si incrinò, delineando sagome dai contorni ben definiti.

Segmenti delle vite degli altri presero a filtrare come sussurri notturni.

Entravo nelle loro faccende, da un vetro incrinato.

Poi, il vetro si ruppe.

Crollò a terra un pomeriggio d’autunno, e mi lasciò scoperta la camera da letto, quella dove, da ragazza, traducevo le versioni.

Per 274 giorni nessuno venne ad aggiustarla.

Voci fino ad allora sconosciute divennero grida. Qualcuna di aiuto, qualcuna di gioia. Erano più quelle d’aiuto.

I discorsi, le urla degli altri si conficcavano nel mio cervello. Si faticava a restarne fuori.

Quella che faceva la miglior Carrot cake dell’asilo c’aveva un marito che non riusciva più ad allacciarsi le scarpe. Il nonno del bambino più ricco piangeva ogni lunedì pomeriggio, dalle 2.47 alle 2.58, poi basta, si soffiava il naso in macchina, e via.

Mi difendevo leggendo. Non era mica facile. Ripetevo 7 volte una frase.

Fu così che il fuori si prese il dentro, e la mia Linea Maginot si ruppe, silenziosa.

Fu così che il diagramma mi avviluppò.

Spalancai le braccia, gli dissi: “Eccomi sono pronta… anzi no, aspetta…”, ma quello mi inglobò tutto d’un colpo nella sua figura a fagiolo, che divenne un fagiolo di 25 cm più largo, e quindi io divenni l’ansa del fagiolo. Il confine ultimo.

Trovai la fila A.

Nacque una bambina e la chiamai Luce.

Aveva la testa grande quanto un kiwi, la guardavo attraverso un contenitore di plastica trasparente, che rendeva inutili le parole.

Sapevo che, di là, stava contando le pioppelle, una per una.

A settembre aggiustarono la finestra.

Eleonora Bassi

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