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Scuola di scrittura

Il bambino nella bolla, di Ilaria Celasco

Il bambino nella bolla, di Ilaria Celasco.

Il racconto Il bambino nella bolla, di Ilaria Celasco, è arrivato secondo al concorso Tracce, categoria C (30+).

Ti ricorda come in scrittura il mondo giusto e il mondo sbagliato non siano diretti – come in questo mondo, del resto -, ma viaggino un po’ di sghembo. Ilaria ha scritto un testo in bilico tra vita e delitto, tra verità e giustizia; ed è così bello non essere giudici ma spettatori di fronte alla vita.

CLASSIFICA FINALE DELLA CATEGORIA C, CONCORSO TRACCE.
1. La bestia, di Ada Birri Alunno
2. Il bambino nella bolla, di Ilaria Celasco
3. Ninfea (beaux jours), di Raffaella Bersani

Mi avevano beccato mentre cercavo di aprire un’auto. Non volevo rubarla, mi serviva per dormirci. La polizia però quelli come me mica li ascolta e così il tribunale mi aveva affibbiato un periodo di ‘lavori socialmente utili’ in ospedale. Ero stato fortunato secondo loro. Sì, davvero uno spasso per me che odio gli adulti in generale e i medici in particolare. Poi le malattie mi fanno schifo. Mi chiedo cosa ci stiano a fare e perché non si possa dire basta e premere un bottone.
Faccio quello che mi dicono senza lamentarmi, devo indossare sempre i guanti e ora di sera ho le mani cotte, ma così sono al sicuro: non rischio di dover toccare nessuno. Toccare la gente non mi piace.
È un ospedale pediatrico. Quando mi hanno assegnato qui ho tirato un sospiro di sollievo, meglio i bambini degli adulti o dei vecchi. Sono davvero un cretino. I bambini malati sono la cosa più triste che esista.
La prima volta ho visto Davide perché avevo sbagliato stanza. Avevo aperto la porta e mi ero trovato davanti a due enormi bolle di plastica collegate da un tunnel. Pensavo di essere finito in un laboratorio di ricerca e stavo per fare dietrofront quando avevo sentito una voce:
“Ciao, sei nuovo?”
Era stato un bambino a parlarmi, un ragazzino vero, avrà avuto una decina d’anni, vestito di tutto punto, che stava in una delle due bolle.
“Non sai parlare?’’ mi aveva chiesto.
“Cosa cavolo fai lì dentro?’’ avevo detto.
“Questa è la mia camera.”
Mi ero avvicinato, tanto lui era nella bolla e io avevo i guanti, e avevo guardato meglio: nella bolla c’erano giocattoli, libri, un tavolino e una sedia.
Dalla bolla in più punti spuntavano coppie di guanti: mezze braccia che penzolavano nel vuoto.
Lui era in piedi con il palmo della mano appoggiato alla plastica. Sembrava di essere in un film di fantascienza. Continuavo a guardare i giochi per non guardare lui e non mi veniva niente da dirgli.
“Lei non è autorizzato a stare qui, se ne vada subito!”
Ero stato salvato da un’infermiera. Una brutta infermiera, ma andava bene lo stesso.
Ci avevo messo più del necessario a muovermi e senza volerlo avevo guardato il bambino. Sorrideva. Sorrideva a me.
“Mi chiamo Davide, e tu?”
Avevo dovuto ripescare il mio nome. Per gli adulti ero Vecchi, per gli amici Schizzo.
“Massimo.”
“Se ne va o devo chiamare qualcuno?”
“Vado, vado” avevo alzato la mano per salutare il bambino ed ero tornato in corridoio, tirandomi dietro il carrello con cui ero arrivato.
Non ero più riuscito a pensare ad altro. Prima mi erano venute in mente cose da fumetti, sperimentazioni non autorizzate, contaminazioni aliene, stupidate così, poi mi ero fatto mille domande ma soprattutto continuavo a vedere il suo sorriso.
In pausa ero sceso nel seminterrato. Lì, nello stanzino in cui mi rifugiavo tra un turno e l’altro, mi ero seduto per stare un po’ tranquillo e mi ero addormentato secco.
Erano state le voci di due tizi che discutevano fuori dalla porta a svegliarmi. Avevo guardato l’ora ed ero in ritardo. Ero arrivato in reparto col sudore che mi colava lungo la schiena. Il bagno era vicino all’ingresso e così ero entrato per sciacquarmi la faccia. Nello specchio quasi non mi riconoscevo: con i capelli corti facevo davvero schifo, ma ero meno magro di prima e questo era un bene. Mi ero lavato la faccia, le mani e le braccia fino al gomito prima di mettermi dei guanti puliti e uscire.
“Vecchi è in ritardo! Si muova, devo parlarle.”
Avevo imprecato a bassa voce e avevo seguito la caposala nel suo ufficio.
“Vecchi, non so perché, e non so se voglio saperlo, ma su al settimo piano hanno chiesto di lei.”
“Cos’ha il bambino?’’ avevo chiesto.
“È affetto da SCID, immunodeficienza combinata grave. Significa che il suo organismo non è in grado di produrre anticorpi.”
“Vuole dire che sta nella plastica da quando è nato?”
“A volte va a casa, ma anche lì è in isolamento, per ora non esistono cure per questa malattia.”
Dovevo essere sbiancato perché la caposala aveva allungato un braccio verso di me.
“Tutto bene?”
Che domanda cretina, no che non va tutto bene, sopra c’è un ragazzino che vive nella plastica da dieci anni o forse più, come cazzo può andare bene? Mi tremavano le mani ma dovevo togliermela di torno.
“Tutto ok.”
“Hanno organizzato la proiezione di un film e il ragazzino vuole che lei gli faccia compagnia. Vada a farsi una doccia e salga.”
Potevano almeno chiedere se mi andava di farlo.
Dopo aver indossato un camice e cambiato i guanti ero entrato nella stanza. Una delle sedie vuote era vicina alla bolla.
“Ciao Massimo, vieni qui, Star Wars sta per iniziare!”
Il film non lo avevo mai visto, ma era meno fantascientifico di quello che c’era nella stanza: un’astronave che serviva a un bambino per vivere sul suo pianeta.
Davide era stato tutto il tempo seduto accanto a me. Al primo combattimento aveva infilato il braccio in uno dei tentacoli che spuntavano dalla bolla e mi aveva preso la mano. Non mi era rimasto altro che tenerla, ma non la sentivo perché quel guanto era troppo grande per un bambino.
Era appassionato di stelle. Sapeva a memoria il nome e la forma di un sacco di costellazioni mentre io a malapena individuavo il Grande Carro. Lui non le aveva mai viste le stelle e gli sarebbe piaciuto tanto e, non so come, gli avevo promesso che ci saremmo andati insieme. Sono davvero un cretino. Oltretutto dovevamo farlo in fretta perché aveva in programma una trasfusione di midollo e da quel momento sarebbe stato monitorato costantemente per parecchio tempo.
Ci avevo messo quasi un mese per imparare le procedure che andavano usate per trasferirlo nell’unità mobile. Non avevo la patente, né tantomeno un furgone così avevo preso a perlustrare i dintorni dell’ospedale per trovare un posto abbastanza buio per poter vedere le stelle. Il giardino dell’ospedale non era adatto. Lo avevano riempito di lampioncini e sui cavolo di vialetti ci passeggiavano persone ad ogni ora, così una sera ero salito sul tetto dell’ospedale. Un posto orrendo e troppo illuminato. Avevo visto un quadro elettrico proprio prima della porta d’uscita e in cambio di parecchie stecche di sigarette il manutentore mi aveva spiegato come togliere la luce.

Le abbiamo viste le stelle, da sopra l’ospedale. Una cosa da non crederci. Eravamo dovuti scendere fino alle cucine per prendere il montacarichi che ci avrebbe portati su. Per fortuna a mezzanotte lì non c’era nessuno. Le ruote dell’unità mobile cigolavano a ogni giro, Davide era agitatissimo e continuava a ridere e io gli dicevo di stare zitto, ma ero allegro anch’io anche se mi tremavano un sacco le mani.
Di sopra è stato incredibile, una volta spente le luci il cielo era pieno di puntini luminosi e Davide non diceva niente, stava lì con le gambe incrociate e la testa in su.
A un certo punto aveva alzato il dito puntando in alto e aveva gridato:
“L’hai vista? La scia, l’hai vista?”
Ma io non avevo visto niente perché guardavo lui e le mie mani libere dai guanti.

Ilaria Celasco

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