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Il mare non è un cane da guardia, di Benedetta Barone

Il mare non è un cane da guardia, di Benedetta Barone.

Il racconto Il mare non è un cane da guardia, di Benedetta Barone, è arrivato secondo al concorso Tracce, categoria B (20-30).

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CLASSIFICA FINALE DELLA CATEGORIA B, CONCORSO TRACCE.
1. L’unica possibilità, di Giovanna Marcianò (anni 26)
2. Il mare non è un cane da guardia, di Benedetta Barone (anni 28)
3. Grigio e caldissimo, di Viola Giacalone (anni 27)
3 ex aequo. Segni, di Anita Cagnazzo (anni 29)

 Un tempo, prima, molto prima di oggi, dietro alle case del paese sorgevano i pozzi neri. Delle cavità sotterranee, carboniche, profonde come gole, dalle esalazioni nauseabonde. Ricordavano i gironi infernali delle concerie di pellame marocchine. Gli uomini che li svuotavano erano neri, neri anche loro, coperti da un pastrano che soltanto prevedeva una fessura per gli occhi, per lo sguardo. Si calavano in quel sottosuolo mefitico, in quella terra dalle fiamme non di fuoco, ma di vomito, di feci, di escrementi. Ricomparivano dopo qualche ora, silenziosi, rassegnati come minatori e sempre neri, neri come la pece, come il petrolio. Neri come il male.
Adesso, i pozzi sono stati smantellati. Rappresentavano un’abitudine desueta, malsana, senz’altro poco igienica. Sì, poco igienica. Le case sono aumentate, non ve ne sono più una trentina come in passato, sono diventate cinquanta, e poi cento, duecento, seicento, mille. E non soltanto di pietra, ma di cemento, di calce bianca, così linda e smagliante da somigliare a grandi gabbiani depositati in mezzo ai canneti, imperturbabili, stolidi. Sono provviste di tutto, anche di un gabinetto.
Il sindaco e la giunta comunale si aggirano sulla strada lastricata che guada la spiaggia, da quando è stata costruita sono spuntati anche un chiosco, un ristorante e un lido, anzi due lidi, due. Scuotono il capo, qualcosa non funziona, non è stato fatto abbastanza, il resto d’Italia è più avanti, si vede dalla quantità di turisti, dai soldi che portano, dalla ricchezza che diffondono. Qui è stato fatto molto, molto sì, ma certo non abbastanza. Sospirano.
Le feci, adesso, scompaiono non appena si tira lo sciacquone, vengono travolte dallo scarico, sussunte da una carica gravitazionale che le dissolve, le smantella, le sminuzza. Nessuno le vede più. Basta aprire un poco la finestra e l’aria, il vento, la corrente dissipano anche l’odore. La puzza.

 

È un vero sollievo, perché adesso si mangia più di una volta, la lavastoviglie parte sia a pranzo che a cena, il retro delle automobili si carica di sacchi della spesa, di pacchi di cozze surgelate, di spaghetti da cucinare lunghi e unti, di frutta la cui buccia rilucerà, marcescente, sul fondo dei bidoni dell’immondizia.

 

Si ingrassa, i peli dei signori si tendono sulle pance. Si convincono che dimagriranno, che devono dimagrire, consultano i medici, i medici concordano, il piacere del cibo è irremissibile, la cadenza di queste parti rende la parola tuonante, e i peli dei signori nel frattempo diventano canuti, si tingono di bianco, così come la pelle delle signore casca al di là dei vestiti.
«Ti ricordi? Era bello, era più bello, quando si mangiava di meno», sospirano. «Un uomo grande e grosso si alimentava con il brodo scaldato nel pentolino, la sera. È vero? E vedi che ti ricordi». Rovesciano la testa all’indietro, si appisolano nel tepore dei giardini, accompagnati dal rumore delle pignatte nel lavello, delle voci sommesse alla televisione e del mare, al di là del cancello.
Il mare. È sempre lui, sempre lo stesso, da cent’anni a questa parte, da quando i genitori dei signori e i loro nonni lo tenevano a bada come fosse stato un cane da guardia, convivendoci, coabitandoci, accarezzandolo sulla testa, assestandogli delle pacche affettuose in mezzo alle scapole. Lo hanno saputo domare. La sua presenza è onesta, burbera, preziosa, adamantina.
Durante le mattine di vacanza escono, eccoli, si avventurano sulla spiaggia. Piantano l’ombrellone, stendono gli asciugamani, i teli, dispongono le seggiole, si dirigono verso l’acqua, ma a pochi passi dalla riva si bloccano, retrocedono: sulla superficie dilagano chiazze gialle, anzi, marroni, dal colorito strano, pare ocra eppure qua e là si scorge anche una sfumatura brunita. Sono tante al punto che tracciano una vera e propria traiettoria, una macchia, visibile a occhio nudo, che si stende fin dove è possibile aguzzare la vista, di certo su tutto il perimetro della costa, non solo quella del paese, no, contamina anche le frazioni a seguire, ecco, non si capisce dove finisce, dove sfocia. I signori si sporgono, la contemplano, quella ribolle, increspata appena dalla brezza. Che strano, che stranezza, qui il mare è sempre stato pulito. Ma che cos’è? Che cos’è?

 

«La zella!», gridano i pochi, casuali avventori romani e si affrettano a ritirare le stuoie. La zella? Il sindaco e la giunta comunale accorrono, si sfregano le mani, le sospingono innanzi, si sforzano di sorridere: «Ma che. Questo sporco che vedete, signori, è di origine vegetale». 
Qualcuno intinge gli alluci, si immerge fino ai polpacci. È curioso, desta dei sospetti questo marrone, questo giallo, e poi anche la leggera schiuma che emette, che porta con sé…
«Oh!», sbotta il sindaco. «È per via della mareggiata. Quando si scuote una damigiana di vino, che succede? Dal fondale si sollevano polveri. Ma questo non significa che il vino è cattivo. Non fate gli ignoranti!».
I signori si persuadono, in effetti non capiscono, avrà ragione il sindaco, lui ha a cuore il paese, il mare, quella terra, la loro terra. Come potrebbe essere altrimenti?

 

Eppure il telefono strilla in tutti gli uffici, la casella di posta del portale digitale esplode di segnalazioni, allegati, riprese dal telefonino. «Eminenza, questa è merda! Dove sono i depuratori? Sindaco, voi offendete la nostra intelligenza!».

 

Il sindaco scalpita, desolato. Merda, merda, ma quale merda? Come se a lui piacesse, come se non ci avesse pensato, come se non ci pensasse, giorno e notte. Ma si tratta di un problema senza soluzione. Che glielo dicessero, che s’ingegnassero, che gli spiegassero cosa era tenuto a fare. L’avevano preteso loro, il progresso, l’incivilimento! Bisognava dunque tornare indietro? Volevano un’altra volta i pozzi neri? Con le mille case che ora sorgevano sul litorale e che erano destinate a diventare almeno il doppio, così stabiliva il piano quinquennale della regione che lui aveva approvato.

 

È stato fatto molto, molto sì, ma certo non abbastanza, di questo il sindaco è consapevole. I soldi vengono amministrati male, non girano, no, gli stranieri preferiscono ancora altri porti, ma com’è possibile?

 

In spiaggia l’aria è immobile, fossilizzata, i signori divorano bottigliette di plastica e pure non resistono, a un certo punto si buttano, domandano al sindaco, il sindaco li rassicura, perciò ridono, grattano il mare tra le orecchie, credono di vederlo scodinzolare, ma sì, non è vero che scodinzola? È più mogio di una volta, è invecchiato, è meno reattivo, ma il tempo passa per tutti. Dagli una carezza, su, dagliela. È sempre lui, è buono, buono. Dalla cima della collina sembra un lenzuolo azzurro, pieghettato, ma anche a quell’altezza si scorge un alone giallo che si dirama dal paese e lo permea, lo circonda, come se in un pentolino d’acqua fosse stato versato dell’olio.

 

Al cimitero le tombe non bastano, non c’è più spazio, i morti si contendono la terra, stanno uno sull’altro, le ossa di uno premono sulle ossa del vicino. Ma i ritratti stinti della popolazione antica, quei volti arcigni, austeri sono stati sostituiti con fotografie più allegre, recenti, a colori. Tiè, le vedi? Giganteggiano sulle lapidi, le sovrastano, le facce sono pulite, gonfie, file di denti di un avorio accecante. Qualcuno si è fatto apporre, alle spalle, un tramonto dalle tinte incandescenti, rosse al punto che paiono divampare, voluttuose, roventi, avviluppate alle lettere dei loro nomi, in corsivo, volteggianti nell’etere…

Benedetta Barone

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