Se c'è posto tra le nuvole, di Maria Vittoria Soda.
Il racconto Se c’è posto tra le nuvole, di Maria Vittoria Soda, è arrivato secondo al concorso Tracce, categoria A (under 20).
CLASSIFICA FINALE DELLA CATEGORIA A, CONCORSO TRACCE.
1. All'alba, di Gioele Tuveri (anni 13)
2. Se c'è posto tra le nuvole, di Maria Vittoria Soda (anni 19)
3. Il confronto, di Claudia Anedda (anni 18)
L’estate in cui mia nonna si perse per sempre fu la stessa estate in cui io smisi di cercare le figure nelle nuvole. Mi affacciavo allora sopra quell’abisso adolescenziale in cui la voglia di allontanarsi da casa è un prurito, ed il corpo cresce a dismisura in tenera e grossolana tensione verso la finitezza dell’adultità. Fu una sorte ironica e crudele a decidere che, in concomitanza con l’affermazione del mio esso osservabile e tangibile agli occhi esterni, di mia nonna si sarebbe dovuto spegnere il sé. Presto compresi infatti che mentre io avrei dovuto imparare a vivere, goffa ed impacciata, nella mia nuova larga casa di donna, lei sarebbe rimasta immobilizzata, impaurita e spaesata, nell’angusto armadio di buio che è la demenza.
Negli spazi reali che condividevamo, come sempre avevamo fatto durante le estati della mia vita, scoprii che si andava dibattendo una mutazione ontologica e generazionale. Se, da un lato, io abbandonavo la mia pelle stretta per abbracciarne una che mi desse maggiore libertà di respiro, dall’altro osservavo come la patina esistenziale del suo io venisse raschiata dall’avanzare della malattia. E più i giorni passavano, più notavo come non solo mia nonna si stesse distaccando dal suo sé, ma anche quanto lei, nell’interezza che sapevo avesse smarrito, mi risultasse sempre più inarrivabile, intangibile all’interno del labirinto di atrofie e confusioni che è l’Alzheimer. Non era il bandolo della matassa ad essersi perso, ma l’intero gomitolo a starsi sfilacciando e disintegrando.
Fu nel mezzo di quella tempesta -rigeneratrice per me, distruttiva per lei- che iniziai a domandarmi quale fosse il confine che separava le nostre vite, cosa ci rendesse diverse, ma soprattutto in quale punto delle nostre rispettive strade avrei dovuto aspettarla, nella speranza di ritrovare la nonna che avevo sempre conosciuto. La prima sottile linea scura che notai ci stesse dividendo, fu lo scontro tra la mia volontà di fuggire dagli anni infantili e la sua strenua ostinazione a rifugiarvisi. Mentre io riponevo da parte, quasi con disprezzo, i miei occhi da bambina, mi accorgevo di come lei operasse un inconscio ritorno meccanico ai giorni di cui io volevo disfarmi. Rispetto al presente della malattia, i suoi anni sbiaditi, immortalati nelle poche foto tenute gelosamente nel cassetto del comodino, le apparivano come un microcosmo di tranquillità nel quale muoversi abbastanza agevolmente. Questo confine nostalgico, spesso profondo e incerto, mi suggeriva che, poiché stavo al di là, dalla parte dei liberi, avrei dovuto ondeggiare con le mie pulsioni verso l’esterno, lasciando che il vento della vita non ancora vissuta mi attraversasse di proposito. In tragica simultaneità, lei si trovò invece ad affogare nell’acquitrino paludoso dei ricordi, sempre attenta a camminare in punta di piedi all’interno di esso, quasi temendo che se avesse fatto troppo rumore la malattia l’avrebbe raggiunta più velocemente.
Durante quell’estate ci furono diversi momenti nei quali mi imposi di addentrarmi nel buio vischioso della sua solitaria implosione cognitiva, per ricercare la persona delicata e colta che era stata un tempo. Così, spesso la trascinavo in una camminata di piccoli passi, la cui ultima destinazione era una panchina verniciata di blu circondata dagli oleandri in fiore, profumata dai ricordi della sua adolescenza. In questo modo tentavo dunque di recuperare mia nonna, partecipe di uno strano parallelismo in cui mi immedesimavo in un Orfeo immaturo e spaventato, e lei interpretava un’Euridice smarrita, cosciente soltanto a tratti di trovarsi negli Inferi. Alla fine di queste sessioni dolorose, fallimentari, cresceva in me un sentimento di rabbia, poiché ogni volta riemergevo da quel buio consapevole di averle sfiorato la mano, ma di non essere riuscita a portarla con me. Questo sentimento di disperazione, a volte tramutato in vera e propria furia, allargava a macchia d’olio la linea scura che ci separava. Poiché, per quanto mi rifiutassi di ammetterlo, sapevo che l’impossibilità di salvarla provocava in me un gran dolore, e rifuggirlo significava nascondere l’amore sotto pile di silenzi dolorosi. Eppure, nonostante la disperazione, resisteva in me – irriducibile – il desiderio di indagare quel confine, di immergermi fino in fondo in quella trincea, nella speranza di poter comprendere. Capire diventò per me il sinonimo di amare; vissi quei mesi nella convinzione che se avessi afferrato anche solo un lembo di quel lenzuolo bianco flaccidamente steso sopra il cervello di mia nonna, sarei anche stata in grado di tornare ad amarla come meritava. Questo insegnamento, così duramente appreso, mi fu poi fondamentale negli anni a venire, nel mio modo di intraprendere le relazioni con gli altri. Perché se è vero che tra me e mia nonna si formarono spaccature profonde, durante quell’estate dalle nuvole silenziose, è anche vero che lei fu il vento che maggiormente mi spinse a diventare donna. Il confine che ci separava era sì un ostacolo, ma anche un continuo scontro che mi condusse gradualmente alla trasformazione definitiva in donna adulta.
Il tempo che intercorse tra l’inizio di quell’estate e la fine della sua vita non fu né troppo né troppo poco. Di quei giri d’orologio conservo il ricordo di paludose distese d’oblio osservate da lontano, montagne come ammassi molli dal pendio puntinato di orme pesanti. Queste sono le uniche sensazioni, legate al periodo antecedente la sua morte, di cui possiedo un vago rivivere.
Non compresi a pieno l’eredità spirituale di mia nonna finché, diversi mesi dopo, seppellito il dolore più crudo e vivo, non ripercorsi gli eventi con tenera attenzione. Immediatamente scoprii che tutto quello che aveva cercato di comunicarmi, quanto di più bello potevo trarre dal suo vissuto, era l’importanza di combattere per la propria storia. Ché non bisogna operare una rimozione forzata dei propri ricordi, tagliare le radici con il passato, con l’infanzia, con la propria famiglia, per diventare grandi. È fondamentale, tuttalpiù, ripiegarsi su sé stessi cercando – insieme ed attraverso il corpo -le parole per la propria narrazione personale. Poiché il confine ultimo, invalicabile, è quello che separa la paura di conoscersi dalla disposizione a scendere a patti con il proprio io, per trovare uno spazio bianco grande abbastanza da contenere le mille forme che si assumono durante l’esistenza. Non un contenitore -ne servirebbe uno dagli infiniti lati- bensì un foglio bianco, una distesa di spazio e luce; magari anche un cielo pieno di nuvole, se si trova posto.
Maria Vittoria Soda
grazie Maria Vittoria,
“sapevo che l’impossibilità di salvarla provocava in me un gran dolore, e rifuggirlo significava nascondere l’amore sotto pile di silenzi dolorosi.”
” se è vero che tra me e mia nonna si formarono spaccature profonde, durante quell’estate dalle nuvole silenziose, è anche vero che lei fu il vento che maggiormente mi spinse a diventare donna.”
In queste frasi leggo tutta l’autenticità di una riflessione profonda. Complimenti per il racconto, originale per il suo linguaggio filosofico ma anche sincero, e per questo efficace.