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Scuola di scrittura

Segni, di Anita Cagnazzo

Segni, di Anita Cagnazzo.

Il racconto Segni, di Anita Cagnazzo, è arrivato terzo ex aequo al concorso Tracce, categoria B (20-30).

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CLASSIFICA FINALE DELLA CATEGORIA B, CONCORSO TRACCE.
1. L’unica possibilità, di Giovanna Marcianò (anni 26)
2. Il mare non è un cane da guardia, di Benedetta Barone (anni 28)
3. Grigio e caldissimo, di Viola Valéry (anni 27)
3 ex aequo. Segni, di Anita Cagnazzo (anni 29)

 Ogni volta che Anna si arrabbiava faceva degli strani movimenti con le labbra; iniziava mordendo le pareti interne rosee, umide e piene di nervi fino a quando le labbra si ritraevano diventando sottili. Poi storceva la bocca, serrava le labbra dietro le punte delle dita e le premeva affinché nessuna parolaccia osasse affacciarsi alle sbarre ossute. A volte mordeva le pareti interne delle guance e le poggiava nel palmo della mano per contenere il calore che si irradiava fino allo strato più superficiale della pelle, tingendola di rosso come il sangue. E di sangue che scorreva nelle vene in quei momenti Anna ne aveva tantissimo e si muoveva velocemente come il fuoco che alimentava la sua rabbia e che quando non ne poteva più trasformava in acqua che le rigava il viso singhiozzante.

Anna, pelle in fiamme e viso bagnato; me la immagino così se solo avesse avuto il tempo per accorgersi dell’auto che la fece rotolare tre volte fuori dalla corsia. Volò come le appendici piumose e leggere di alcuni frutti che si lasciano trasportare dal vento per depositare il loro seme ma non arrivano mai a destinazione perché rimangono intrappolate negli gli ulivi secchi della campagna. Anna, pelle in fiamme, viso bagnato e la bocca piena di parolacce che non può più trattenere. Me la immagino così, se solo avesse riaperto gli occhi e saputo che era stata colpa di un cellulare.

Sussurro una ninna nanna e Noah rilassa i muscoli delle gambe paffute che penzolano tra le mie braccia. Scioglie i pugni, distende le dita minuscole e sento il peso della sua testa sul seno. Guardo fuori dalla finestra. I passi veloci dei bambini che si nascondono in cortile battono sulle piastrelle rotte come tamburelli, rallentano in prossimità dei grandi vasi colorati di terracotta con le pale del fico d’India straripanti. Una bambina si nasconde dietro una colonna bianca come la gonna che le arriva alle ginocchia, la bambina più alta si nasconde dietro di lei, poggia una mano sulla sua spalla e con l’altra le tappa la bocca. Il bambino che ha contato si allontana dal muro di fronte a lui, corre intorno al perimetro del cortile e scopre tutti i nascondigli dei suoi compagni tranne quello delle bambine, che rimangono immobili dietro la colonna. La bambina più alta sussurra qualcosa nell’orecchio di quella più piccola, le da uno spintone, la bambina piccola inizia a correre e urla “liberi tutti”.

Il gioco ricomincia. Il conteggio può durare tutta una vita, come per Giacomo, per esempio, che quando chiudeva gli occhi di notte immaginava Laura nuda con gli occhi semiaperti. Laura, capelli rossi, occhi verdi e grandi, i primi a leggere le date degli esami e gli argomenti. Nella facoltà di economia le informazioni veicolavano in un mondo sotterraneo, una specie di labirinto fatto di viscere unte, carnose e profonde come le pupille che Giacomo nascondeva dietro una montatura spessa e nera. Tra lui e Laura era iniziato tutto per gioco; un gioco di segreti e tradimenti che li aveva eccitati da quando le loro labbra umide si erano toccate per la prima volta.

«Vorrei un figlio con te» gli disse Laura quando lui passò il dito sul suo ombelico.

«Voglio sentire il peso dell’amore qui dentro» aggiunse stringendo la mano di Giacomo sul suo ventre piatto. Giacomo le rispose che c’erano dei compromessi da accettare. Ritrasse la mano e passò il pollice sull’anulare della mano sinistra stringendo gradualmente il pugno.

Qualche mese dopo entrò nell’aula dei professori con un vassoio di maritozzi che riempirono la stanza di un odore di vanillina e panna fresca. I suoi colleghi si congratularono per la nascita della sua bambina. Giacomo li ringraziò ed estrasse dalla tasca dei pantaloni il cellulare che vibrava, lesse il messaggio di Laura in anteprima. Sullo sfondo c’era una donna in un vestito lungo e bianco, i suoi capelli biondi erano raccolti dietro la nuca in uno chignon morbido, aveva dei boccoli più lunghi ai lati, un sorriso bianco e simmetrico e una mano che reggeva un bouquet di rose bianche. Le braccia di Giacomo erano annodate sul suo ventre, il suo viso poggiato sulla sua scapola. Passò il dito sullo schermo ed eliminò la notifica del messaggio.

I colleghi si pulirono la panna agli angoli della bocca, si diressero verso la macchinetta del caffè e mandarono giù i grumi della pasta dolce e soffice incastrata tra i denti sorseggiando un espresso fumante. Giacomo ripose il cellulare nella tasca, spinse con forza il vassoio pieno di briciole incollate alla panna nel cestino della spazzatura, si incamminò verso la sua macchina, la mise in moto e cantò High Hopes dei Pink Floyd fino a quando fu interrotto dalla videochiamata di Laura. Fece scivolare il dito sull’icona rotonda e verde e il tradimento lasciò le sue tracce sull’asfalto, la pelle di Giacomo si riempì di segni.

Sussurro le ultime note della ninna nanna, Noah si è addormentato. Mi chiedo cosa gli racconterebbe Anna. Forse inizierebbe dicendo che Laura e Giacomo si amavano davvero e che il loro amore, in fondo, poteva essere quello di chiunque altro. Forse gli direbbe che a volte l’amore sbaglia. Forse gli racconterebbe il suo, che è nato nel paesino in cui siamo cresciute, un paesino dove il tempo si è fermato. Di notte i lampioni gialli illuminano le stradine strette e i cortili su cui si affacciano case piccole e bianche. La notte della festa patronale si spengono tutte le luci del paesino e l’unica cosa che si vede è un cielo nero trafitto da punti brillanti. La nostra casa in cima a una stradina profuma di shortbread appena sfornati o di bammy fritto. A pochi chilometri di distanza c’è un porto; spesso c’è un vento che arriva dalla Libia e trascina con sé la sabbia dorata del deserto. Vicino al porto c’è una grotta e al suo interno è nascosto un complesso pittorico neolitico in cui non arriva mai la luce del sole. Le braccia della grotta racchiudono un mare turchese. Un paio di mesi fa il mare ha inghiottito la spiaggia e l’acqua salata ha riempito il canale nel quale scorreva prima che l’uomo bonificasse la zona. Forse Anna direbbe a Noah che la natura è viva, che tutto le appartiene, incluso i nostri occhi che rimangono aperti per catturarla e si chiudono per portarla altrove. Gli direbbe che la natura è tanto forte da permettere al vento di portare con sé i granelli di sabbia oltre il Mar Mediterraneo e di conservare i tremila pittogrammi incisi sulla superficie carsica della grotta a decine di metri sotto il livello del mare. Gli direbbe che le immagini raffigurate sulle pareti raccontano le stesse storie da migliaia di anni: storie di caccia, di fantasmi, di riti, d’amore. Gli giurerebbe che sono storie immortali.
Io mi chiedo se è questa la storia che dovrò raccontare a Noah. Mi chiedo se sono queste le parole che sceglierebbe Anna affinché un giorno suo figlio non debba mai chiedersi dove è finita la verità e dove è iniziata la finzione.

Anita Cagnazzo

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