Simbionte, di Deborah Guarnieri.

Il racconto Simbionte, di Deborah Guarnieri, è arrivato secondo al concorso Tracce, categoria B (20-30).

Ci ha reso la vita difficile, a tutta la giuria; e adoriamo, in giuria, quando ci rendono la vita difficile. Deborah gioca con immagini musicali, una storia che non è tecnicamente una storia, ma un andare in avanti; eppure sentiamo che, nel finale, una porta si è chiusa, un pesce ha chiuso senza rumori la propria bocca.

Avanti con coraggio, Deborah.

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CLASSIFICA FINALE DELLA CATEGORIA B, CONCORSO TRACCE.
1. Il profumo del glicine, di Maria Carla Colombi
2. Simbionte, di Deborah Guarnieri
3. dbp, di Gianmarco Biemmi

Era sola nell’appartamento, aveva perso il conto. Sapeva che era giorno quando il sole filtrava tra le assi di legno della tapparella abbassata della camera da letto e colorava il pavimento di lamelle d’oro, giocava a non pestarle perché preziose. Oltrepassandole in punta di piedi arrivava in corridoio. Spostava le piante a seconda di quale stanza fosse illuminata, cucina, soggiorno, si sedeva accanto a loro, dalla borraccia beveva lei e dava da bere a loro, lei mandava giù anche una pastiglia di vitamina D. Nel frigo due yogurt, tre sottilette, un limone. I raggi trapassavano i vetri e premevano contro il telaio della finestra, a volte si avvicinava e ci appoggiava sopra l’orecchio come lo si appoggia su un petto per coglierne il battito, ascoltava il legno scricchiolare. Apriva una busta di carta rimasta sulla credenza, strappava un pezzo di pane. Saltava col sedere sulla credenza, si coricava sopra il coperchio di alluminio che proteggeva i fornelli e masticava il pane. Tutto era perfettamente pulito, poteva usare ogni superficie.

Quel pomeriggio aveva steso il tappetino di gomma sul pavimento del soggiorno. Aveva salutato il sole inarcando la schiena all’indietro, braccia allungate, mani giunte, ciao sole, grazie, le lamelle d’oro bagnavano il suo corpo, strisce calde sugli occhi, sul seno, sull’ombelico, la doccia dorata di Giove su Danae, respirava gonfiando la pancia sgonfiando la pancia, si immaginava inondata di luce gialla, come fuori, lungo un fiume a mezzogiorno. Aveva finito nella posizione del bambino, le gambe leggermente divaricate perché il petto potesse scendere tra le ginocchia, la fronte sul tappetino.

Non sapeva per quanto tempo era rimasta lì così, l’effetto della pioggia era svanito. Si era tirata su e aveva sbattuto le palpebre, di luce dalla tapparella ne filtrava poca, voleva dire che fuori il sole stava per tramontare. Aveva rimesso le piante al loro posto nel corridoio, pensava che tra un mese l’avrebbero ritrovata denutrita disidratata cieca. Lui aveva bussato alla porta.

Era entrato come se niente fosse e aveva appoggiato sulla credenza della cucina il sacchetto con il pesce e quello con le arance, poco dopo le mostrava il branzino eviscerato sopra l’asse, indicava, le spiegava che era l’occhio che doveva guardare per capire se era fresco.

«Immagina l’occhio vivo. L’occhio vivo del pesce.»

Si era girato verso la finestra e aveva alzato la tapparella. Aveva aromatizzato il pesce nella cucina riempita di luce tiepida, limone pepe sale, le uniche cose che c’erano, lo aveva messo nel forno e le aveva chiesto una saponetta.

«Quella per il bucato.»

In doccia aveva strofinato la saponetta di Marsiglia su tutto il corpo, sui capelli, diceva che lavarsi così lo faceva sentire più pulito, lei lo guardava, rannicchiata sulla tavoletta del cesso.

Il branzino era così bello che lui aveva iniziato a mangiarlo con le mani, staccava pezzetti di polpa e se li metteva in bocca, il terzo pezzetto glielo aveva avvicinato alle labbra, lei lo aveva assaggiato dalle sue dita. C’era solo una sedia quindi non si erano seduti. Davanti alla teglia con la pelle e le lische del pesce lui aveva sbucciato l’arancia, staccava spicchi e se li metteva in bocca, staccato uno spicchio glielo aveva avvicinato alle labbra, lei aveva scosso la testa con forza perché le arance le spremeva e basta, lui aveva insistito, allora aveva succhiato lo spicchio nelle sue dita. Aveva spalancato gli occhi, era dolcissimo.

Da quella sera non se n’era più andato, in doccia strofinava la saponetta su tutto il corpo, sui capelli, sulla faccia, passava la lametta sulle guance, sotto il naso, sul mento, sciacquava via la barba sotto il getto. Le chiedeva di passarle lo spazzolino, lei si alzava dalla tavoletta, lo prendeva e ci metteva sopra il dentifricio, lo consegnava alla sua mano bagnata che sporgeva dal box doccia aperto. Le tapparelle restavano alzate notte e giorno, li svegliava la prima luce del mattino. Lui cucinava, impiattava e la raggiungeva a tavola, il branzino ora lo aromatizzava con ginepro e rosmarino, nello sportello della credenza erano comparsi semi di papavero, erba cipollina, ras el hanout. Metteva al centro del tavolo un unico piatto, si sedeva di fronte a lei e lei appoggiava i piedi nudi sopra i suoi, erano piccoli, ci stavano giusti. Aspettava che lui prendesse un boccone tra le dita e glielo avvicinasse alle labbra.

Spesso le appoggiava la bocca sulla guancia, sui capelli, ma senza baciarla. Si limitava ad appoggiare le labbra, le lasciava lì qualche secondo e si ritraeva, così fino a quel giorno sull’autobus, di ritorno dal supermercato. Si erano accoccolati uno sull’altro, attutiti dagli enormi giubbotti, si erano passati il succo ACE, lui beveva un sorso e glielo passava, lei beveva un sorso e lo restituiva, tre, quattro sorsi finché lui non aveva messo il tappo alla bottiglia e le aveva posato la bocca sui capelli, non l’aveva tolta più per tutto il resto del tragitto. Quella sera si era addormentata con la guancia incollata al suo torace, i vestiti erano scomparsi.

Nel corso delle notti i loro corpi si erano memorizzati per concepire incastri perfetti. Se n’erano accorti in un dormiveglia, prima di addormentarsi: eseguivano una coreografia spontanea, come se ascoltassero una voce che loro non potevano sentire, un’intelligenza innata, primordiale. All’inizio stavano distesi, naso a naso coscia a coscia ombelico a ombelico, poi ecco che lei si girava, allora lui la avvinghiava con il braccio e con la gamba, la accoglieva dentro di sé. Respiro e battito cardiaco si accordavano su un unico ritmo, le vene si fondevano in unico circuito elettrico. In quel dormiveglia gli aveva raccontato di alcuni pesci degli abissi. Quando la femmina trovava il suo maschio, gli si aggrappava alla pancia con i denti, restava lì per settimane, a lasciarsi trascinare. A poco a poco lui la risucchiava, la assorbiva completamente, diventavano un unico corpo, un unico pesce. Così lei si nutriva di quello che lui mangiava, lui non doveva più trovare una complice, insieme non dovevano più preoccuparsi di sopravvivere. Parlava sottovoce, nel buio non sapeva se lui stesse già dormendo.

Alla prima luce del mattino si erano risvegliati ricoperti da una patina.

Deborah Guarnieri

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