In vino veritas, di Lorenzo Guazzini.
Il racconto In vino veritas, di Lorenzo Guazzini, è arrivato terzo al concorso Tracce, categoria A (under 20).
Lorenzo ci ha colpito per una prosa già piena di passione, e di competenza anche lessicale; per la capacità di torcere la scrittura al delirio, ma mantenendo un controllo molto interessante, non privo di qualche piccolo cliché, ma che comunque riesce a mantenere sullo sfondo di un testo davvero piacevole.
Attendiamo di vederlo su narrazioni anche di poco più lunghe; intanto godetevi questo In vino veritas. Bravo, Lorenzo.

CLASSIFICA FINALE DELLA CATEGORIA A, CONCORSO TRACCE.
1. Orbite diverse, di Flavio Felici
2. Il ragazzo di sopra di Gioele Tuveri
3. In vino veritas, di Lorenzo Guazzini
– “Charles, sei pronto?”
– “Théo, mi affido a te.”
Bevvi dal calice che avevo preparato e gli diedi la mano.
Mi guardai allo specchio, scorgendone già nella fluida materia argentea alcuni elementi del mio viaggio. Dopodiché, mi allungai a toccarne la superficie e, come una bolla di sapone, esplose in centinaia di piccole gocce iridescenti.
Riflettevano la luce del sole. Mi trovavo all’aperto, in chissà quale orizzonte, ben lontano dalla mia stanza di Parigi. Avevo attraversato il muro di ombre, ero un viaggiatore dell’irreale.
La mia caduta dal cielo terminò in un vasto mare rossastro. Ancor prima dell’impatto mi ero reso conto che non era acqua, ma vino: il suo profumo estasiante aveva irrotto con forza in tutti i miei sensi e il suo principio diabolico mi aveva chiuso le palpebre. Caddi.
Quando riaprii gli occhi, tra me e il cielo si frapponevano metri e metri di mare e il luminoso disco solare era diventato poco più di una candela velata di rosso. Appena i miei sensi ebbero riacquistato la propria fisiologia, cosa non da poco per un uomo della mia età, venni catturato dalla melodia di un liuto, trasportata a me dalla corrente. Il vino le dava un suono trascinato ma gradevole e distorcendone le note le rendeva più rotonde, trasferendo in esse la propria essenza vellutata.
Nuotai verso quel suono. Di respirare, ovviamente, non avevo bisogno. Dopotutto, non era sott’acqua che mi trovavo e non era il mio corpo quello che stavo guidando. Presto, vidi sul fondale la luce di un falò, intorno al quale suonava, lasciandosi trascinare dalla sua musica in bizzarri volteggi, un menestrello dal volto imporporato.
La sua danza era istintiva, irrazionale, ma la densità del vino, che sul fondale aveva la stessa dolcezza e la stessa consistenza del miele più puro, ne levigava i movimenti, rendendola dolce e aggraziata. Le sue vesti e financo il suo stesso corpo mi apparivano come macchie colorate, che a tratti si confondevano con le zone d’ombra e di luce del mare.
Rapito dalla sua eleganza, pensai di chiedergli indicazioni, ma chissà dove mi avrebbe mandato. E poi, non vedevo motivo di disturbare la sua spensierata follia dionisiaca.
Una volta toccata la sabbia del fondale, mi spinsi dunque verso l’alto e, con nessuna fatica, iniziai, lentamente, a risalire, seguendo per non perdermi il flusso di bolle emanate dal falò.
Ascendendo, trovai le creature più svariate, ma nessuna di esse poteva indicarmi la via. Tra di noi c’era una differenza troppo profonda: mentre io cercavo la verità dietro le cose reali, loro sguazzavano nel mare senza preoccupazioni, godendo dello spazio illimitato che offriva loro. Ve n’erano di tutti i tipi. Coppe, tulipani, flûte larghi e stretti, bicchieri da sherry, da porto e da passito, da rosso e da bianco, tutti si muovevano in banchi di decine di esemplari, volteggiando liberamente nell’etere. Rifrangendo la luce, tinteggiavano il vino di mille nuovi colori. Ogni tanto due di loro sbattevano l’uno con l’altro e andavano in frantumi, ma presto riacquistavano forma e riprendevano il proprio banco.
Lì, in quell’attimo, profumi, suoni e colori si rispondevano gli uni gli altri.
Risalii finché la raffinata melodia del menestrello si fece sempre più lontana e trascinata, fino ad acquistare nuove note: erano le canzoni allegre di una ciurma di marinai. Guardai verso l’alto e mi accorsi di essere quasi arrivato alla superficie. Cercai con lo sguardo la chiglia della nave, ma trovai la nave stessa: era immersa quasi completamente nel vino e viaggiava al contrario, con la chiglia in superficie e le vele gonfiate dalle correnti.
I suoi marinai camminavano sul ponte senza problemi. Sembravano non accorgersi nemmeno di essere a testa in giù. Alcuni si occupavano della pulizia, passando grossi moci schiumosi sulle assi di legno, altri aggiustavano le corde, o controllavano le vele, o ancora chiacchieravano senza un’occupazione vera e propria, appoggiati al parapetto.
Quando mi videro, mi lanciarono una cima, forse speranzosi di trovare un altro membro per il loro coro, forse solo preoccupati che finissi con l’affondare o, peggio, col risalire in superficie. Decisi di afferrare la corda e mi tirarono a bordo. Picchiando con la testa sul ponte, rotolai sulle assi di legno. Quando mi rialzai, ero a testa in giù come loro. Finii accanto al capitano e al nostromo, che sdraiati sul ponte discutevano della rotta distesi sopra le grosse cartine come fossero tovaglie da pique-nique.
Le carte su cui tracciavano il loro viaggio erano completamente bianche. Quando uno dei marinai, avvicinandosi, ne chiese il perché, il nostromo gli rispose malamente, senza nascondere una punta di saccenza, che in quel modo, senza alcun frammento di terra in mezzo, era più facile da intendere e che tutti quei meridiani e quei paralleli, per non parlare dei poli e dell’equatore, erano solo convenzioni e tutte righe che finivano per impicciargli il cervello.
Che potessi fidarmi di persone così serie? Nel regno dell’anima, come anche nell’altro, alla fin fine, è sempre meglio dare ascolto ai folli. Eppure, seguire il loro consiglio era la mia unica possibilità: il menestrello avrebbe saputo indicarmi una via migliore, certo, ma una via in cui avrei finito per perdermi. Sì, avrei chiesto a loro.
Quando l’equipaggio, incuriosito, mi si radunò intorno, tra di loro uscì, urlando di fare spazio, quello che doveva essere il medico di bordo. Fece disporre gli altri in cerchio, lontani da me almeno quattro passi, dopodiché mi prese il polso, mi auscultò il petto e mi chiese se mi fossi perso o mantenessi ancora contatto con la realtà.
“Non nego di aver corso il pericolo” – gli dissi – “ma sono riuscito a mantenerlo.”
Il medico si asciugò il sudore dalla fronte.
“Bene, bene…” – disse – “e quali affari ti portano qui?”
“Cerco la verità dietro le cose.” – risposi, senza preoccuparmi di nascondere le mie intenzioni.
Dall’equipaggio si levarono dei sussurri agitati. Il medico richiamò il silenzio, quindi continuò: – “Il vostro, signore, è un mestiere pericoloso. Un viaggio di troppo, un ingresso sbagliato e non abbandonerete più questo luogo.”
– “Sono un poeta. Ho abbracciato questo rischio quando ho deciso di dedicarmi al piacere della mente e alla turbolenza dello spirito.”
“Costui cerca davvero il tempio al centro della foresta.” – mormorò il nostromo.
Mi indicarono la via e, una volta giunto nei pressi della mia destinazione, abbandonai la nave.
Era naturale che si preoccupassero del contatto con la realtà, è perfettamente normale nelle persone comuni, che cercano nell’irreale nient’altro che un trono di gloria o una via di fuga. Ma per me non è così, non può. Non posso aver paura di perdermi nell’irreale, non posso costantemente controllare che la mia anima resti legata alla realtà. Quel contatto mi irrita, mi brucia le dita al tocco. Devo scrivere attenendomi al reale, ma solo per guidare anime che non possono lasciarlo, quando la realtà delle cose sta dietro di essa e si trova più pura e più facilmente raggiungibile quando ne abbandoniamo gli schemi e la lasciamo decantare all’interno di un mondo di pura immaginazione. Per quanto i moralisti e i materialisti, forse timorosi di perdersi, lo neghino, è proprio lì che quel contatto, una volta abbandonato, diventa unione.
Lorenzo Guazzini