[Racconto inedito] Il biondino, di Michela Coli.

Michela Coli, ormai la conosco da anni.

Ha seguito una residenza in Toscana, chissà che anno fosse, era prima del Covid; poi un corso annuale a Bologna; poi, come tutti, si è spostata all’online.
Lì ha iniziato a seguire i corsi di Amleto; e lì ho sentito che, parte Amleto, parte la scrittura, parte l’esperienza, si stava aprendo un guscio narrativo importante, di cui questo racconto è un testimone.
Vi invito a leggere Il biondino, che le ho chiesto e pum!, mi ha spedito.
E questa, ormai lo sapete, è la cosa più bella che leggerete oggi.

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Zaino in spalla, pantaloni di tela, il biondino si sposta a piedi all’interno del villaggio; dopo un paio di settimane è diventato una figura abituale, non uno del posto ma nemmeno un turista. Tutti sanno cosa è venuto a cercare, ma per ora i bambini che ha chiesto sono tornati a casa, e con abbastanza spicci in tasca da far mangiare la famiglia per un paio di giorni. Ci si abitua a tutto da queste parti.

Prende due granchi e li getta sulla brace, li tiene fermi con un arpione fino a che le zampette non smettono di agitarsi, poi li toglie dal fuoco e li mette sulle foglie di palma. Non smette di guardare il fuoco.

Non ho mai conosciuto mio padre. Mamma non ne parla mai. Di lui ho trovato una vecchia foto; porta i capelli neri con la riga di lato, gli occhi sembrano grandi, dietro occhiali squadrati dalla montatura spessa.

Anche questi granchi sono cotti. Li sposta insieme agli altri e comincia ad aprirli in due con il coltello.

Come so che è mio padre? I denti. Sono piccoli e grigi come i miei. E gli occhi. Sono azzurro chiaro, sembrano liquidi che stanno per traboccare dalle palpebre.

Finisce di aprire i granchi con le mani, un colpo secco per spezzare il carapace, e inizia a tirare fuori la polpa bianca che si sfilaccia tra i denti. Gli occhi sono fissi sul fuoco.



Un giorno ho trovato la sua foto, e ho trovato le lettere che lui scriveva alla mamma; scritte a mano su carta sottile, niente francobollo sulla busta, niente indirizzo, solo nome e cognome della destinataria, un punto al posto del mittente.

Il bambino siede sulla sabbia, fissa il fuoco. Non capisce quello che gli sta dicendo lo straniero, ma non importa; il profumo del cibo è buono, è nudo, le zanzare non si avvicinano, non gli ha ancora chiesto di entrare nella capanna.

Continuava a scriverle di quel pomeriggio in pineta, di come si erano amati, anche se lei all’inizio aveva detto di no ma poi non aveva più detto nulla, non aveva più parlato, non si era più mossa, era rimasta con la gonna sollevata, lui sopra, le mutandine strette nella mano che la teneva ferma sugli aghi di pino, il viso di lei girato di lato, gli occhi ostinatamente aperti a fissare la sua mano, di lei che era scappata via senza una parola, di lei che non era più uscita da quella casa gialla che affacciava sulla spiaggia fino a che non erano finite le ferie del padre e non erano tornati a Genova. Per tutti i giorni che lei era rimasta a casa lui le aveva scritto. Così ho capito come si ama.

Smette di parlare; l’ultima frase non l’ha detta ad alta voce.

Andiamo dentro. No, i vestiti lasciali pure lì, non ti serviranno. Ho già pagato tuo padre.

La bocca è rimasta aperta, gli incisivi laterali, piccoli e giallastri, si spingono in avanti, accavallandosi ai due centrali sporchi di sangue.

Il colore ha iniziato a defluire dal viso ma il corpicino è ancora tiepido, lo ha spostato per avvolgerlo nella stuoia che li aveva accolti poche ore prima. Il sangue ha iniziato a rapprendersi a metà del bozzolo, all’altezza delle natiche.

La luce dei lampi squarcia la notte, le nuvole si gonfiano arrivando dal mare. Il rumore del temporale copre quello dei passi sulla sabbia.

I piedi si avvicinano alla capanna, decine di piedi che si rincorrono sempre più veloci, che si affollano intorno alla capanna, che si pestano e si scansano, rumore di respiri affannati.

La pioggia comincia a cadere, un muro d’acqua nasconde la capanna, nasconde il primo urlo che si alza dal gruppo alla vista del corpo del bambino avvolto nella stuoia intrisa di sangue.

Il biondino è steso a terra, la schiena rivolta alla porta, le braccia avvolte alle ginocchia, un dondolio sommesso accompagnato da una parola ripetuta come una cantilena, la sua voce si sente appena; il gruppo si riversa dentro le quattro mura di legno e palme, e allora sono piedi che calpestano, mani che srotolano la stuoia, che accolgono il bambino, che viene lavato dalle lacrime, che viene cullato da mani piccole e dure, mani che si accorgono dell’uomo in posizione fetale e allora cominciano a strappare, a lacerare tessuti e pelle, tirano capelli, piantano coltelli nella carne morbida, piedi che calpestano, che schiacciano, che spingono.

Non si difende, non chiede pietà, non apre gli occhi, non guarda i suoi carnefici, nel buio ripete sempre la stessa parola, concentrato su quell’unica luce che rimane accanto a lui, ancora per poco.

Mamma.

©Michela Coli

Foto: Osteria del Sole di Bologna, foto di archivio.

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