Ada Birri Alunno (Fano, 1985) è una narrazione vivente. Prima di tutto perché è nata a Fano; ma, se vedete qualche foto che fa, avrete l’impressione di avere a che fare con, chessò, una giapponese nata a Fano, o un’aliena nata a Fano; così.
Non mi ricordo neanche più quando ci siamo conosciuti; ricordo perfettamente che arrivava col Flixbus a Verona, aveva questa cosa del Flixbus comodissimo, e si sedeva nella sede in cui tenevo il corso; e scriveva.
Le sue parole erano fitte, e io avevo sempre la sensazione che volesse controllarle – a volte troppo; nelle risposte si vedeva che cercava di mettere una sorta di capo a tutti i personaggi che aveva in mente, ma, soprattutto, cercava la brillantezza.
Non tanto per gli altri: chiedeva a sé di essere più brillante.
Ma questo non è un necrologio, per fortuna, ma l’intro a un racconto. Ada è incredibilmente dotata, e qui la sua capacità la mette al servizio di una storia in una manciata di parole molto, molto interessante.
E, ça va sans dire, questa è la cosa più bella che leggerete oggi.
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Sei svanito nel nulla mentre facevo pipì nel bagno di un Autogrill.
Ti ho chiesto di non muoverti, di aspettarmi: ci avrei messo pochissimo.
Hai fame? Ti ho chiesto.
Non hai risposto. Parli così poco.
Nel riflesso dello specchio ho intravisto la porta rossa che si chiudeva e una signora che si lavava le mani. Ha alzato gli occhi verso di noi. Poi non so cosa sia successo perché non ho sentito più niente.
Lo sciacquone è partito in automatico, uno scroscio improvviso mentre ero sospesa e provavo a pulirmi senza toccare niente e senza sporcarmi. Poi porte che si sono aperte più volte. Serrature che sono scattate. Passi, acqua dai lavandini, il getto forte degli asciugamani elettrici.
Ho provato a fare prima che potessi, ma, quando sono uscita dal bagno, tu non c’eri più.
Di tutte le paure, perderti era quella più grande. Ogni più piccola parte di me è diventata di pietra.
Ti ho chiamato per nome. Più volte.
Una ragazza coi capelli rosa si stava truccando protesa verso lo specchio. Se solo non se ne fosse andata così in fretta, mi sarei accostata e, mantenendo la calma, le avrei chiesto del bambino che era lì pochi minuti prima.
La basculante d’entrata ha oscillato per un po’ quando la ragazza l’ha spinta per uscire. Ho lavato le mani, mentre altre donne facevano scattare le serrature delle porte in entrata e in uscita. Ancora passi. Ancora sciacquoni. Ho asciugato le mani con cura, decisa a restare lucida. Sei troppo apprensiva, ho cominciato a ripetermi.
Mi sono concentrata a pensare che fossi andato da tuo padre.
Sono tornata al bancone del bar forzandomi di far finta di nulla. Tuo padre mi ha sorriso, perfettamente integrato con tutto intorno. I polsini della camicia rigirati, gli avambracci scoperti: maggio, dentro e fuori.
I suoi denti bianchi e allineati mi hanno suggerito che mi stavo preoccupando invano. Doveva sapere che eri lì, e se lui sapeva che eri lì, nei paraggi, allora voleva dire che era così e io potevo crederci. Perché, tra me e lui, sono io quella non attendibile. È tuo padre quello che sa come coordinare i prima con i dopo, quello che sa aggiustare le cose, quello che trova i numeri delle chiavi per svitare i bulloni, quello che sa quando è il momento giusto di fare una spesa e cosa c’è da comprare.
Io non sono capace di fare le spese e perdo tutto.
Dissimulando la paura, ti ho cercato tra le gambe delle persone, tra quelle inanimate degli espositori metallici dei cd a basso costo, tra le mie. Ma tu non c’eri più.
I bambini degli altri non se ne vanno così facilmente. Loro arrivano e restano. Non vagano da soli. Non si perdono mai, quelli degli altri. Me lo ripetevo mentre continuavo a cercarti.
Tuo padre mi ha detto Andiamo. Mi ha preso la mano e quasi subito si è fermato a guardare qualcosa da comprare per il viaggio. Una bottiglietta d’acqua fredda, qualcosa da mangiare. Passava in rassegna i dolci e i salati, con una lentezza che interpretavo a metà tra fastidio e conforto.
Ho lasciato l’incastro delle mani, ho proseguito in direzione dell’uscita.
Ti ho chiamato sottovoce più volte, in una specie di crescendo, sperando di sentirti tornare all’improvviso, e non ho avuto risposta.
All’altezza dei dentifrici e dei preservativi, la commessa seduta alla cassa mi ha chiesto se per caso avessi avuto bisogno di qualcosa.
Sì, per favore, ho pensato, lo chiami lei al microfono. Gli dica che la sua mamma lo sta cercando e lo sgridi. Che sentano tutti, perché siamo dentro un’autostrada e i pericoli sono ovunque. Lo dica forte, per cortesia, che lo sentano anche i benzinai là fuori, dovessero aver visto un bambino uscire dall’Autogrill. Scandisca bene la parola bambino, dica forte al microfono che appena rientreremo in macchina ascolteremo alla radio qualcosa che gli possa piacere. Gli dica che la rabbia poi svanisce sempre e che presto ci dimenticheremo dell’ennesima fuga. Può essere andato ovunque, ma gli chieda di tornare prima che il papà se ne accorga. Allerti, la prego, anche i suoi colleghi, che stiano attenti e fermino tutti i bambini che se ne vanno.
Ho scosso la testa. Ho sorriso. Ho pagato un deodorante e una confezione di assorbenti da notte.
Forse un circo ti ha portato via. Forse la ragazza dai capelli rosa usciva di fretta per scappare e poterti tenere per sé. Certe persone vogliono i figli più di altre. Vogliono i bambini di tutte le donne, che siano loro tutte le pance. Certe persone la pace non la trovano mai.
Mi sono voltata indietro. Ho cercato al di là dello scaffale: tuo padre mi stava guardando assicurandosi che non me ne fossi andata. Sereno di avermi trovato.
Ci è voluto un po’ perché smettessi di chiamarti per nome.
Ada Birri Alunno
Foto dell’autrice.