[Racconto inedito] Di fatto, ciò che non ho più.

Ombra con mano che fuma

Alessandra Rivoli (Pompei, 1988) non la conosco. Ha pubblicato alcuni shottini e alcuni toast, se ricordo bene; ricordo che ho letto qualcosa e ho pensato: Mi piacerebbe leggerne di più.

Poi l’altro giorno ha scritto un post su facebook che mi ha fatto pensare Ecco, di questo voglio leggere di più; ed eccolo qui. Non sono amante degli autori maledetti – quando ti confronti con gli autori davvero maledetti, ogni tuo ruggito sembra una novena -, e apparentemente il testo gioca con stilemi e stereotipi dell’adolescenza (il fumo, il sesso disinvolto); ma la differenza tra uno stereotipo e la scrittura sta in quanto ci sei dentro mentre lo scrivi.

Un po’ la differenza tra Ronald McDonald e Pennywise. Qui Alessandra ci porta in Campania, dentro case di famiglia, in grotte e su grattacieli. Si sa cosa penso degli ambienti – se ve lo siete perso, ne parlo qui -; qui Alessandra ci gioca per parlare di fumo che fumo non è, e questo racconto, inutile a dirsi, è la cosa più bella che leggerete oggi.

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Aprii gli occhi, la faccia mezza spiaccicata sul cuscino, qualche attimo prima di mettere a fuoco, un respiro profondo, Oggi smetto di fumare. Nessun se tra me e quella decisione, solo un punto.
Avevo compiuto trent’anni qualche mese prima, e di tutte le foto della mia festa non ce n’era una che mi ritraesse sobria e senza una sigaretta tra le labbra o tra le dita. Non che le due cose, essere sbronza e fumare, fossero rette da un principio di causa-effetto, ma svegliarmi la mattina dopo quella festa, nell’afa di inizio agosto, con la faccia di Álvaro tra le gambe, mi fece schifo tanto quanto il sapore di fumo e distilleria che avevo in bocca e di cui si erano impregnate pure le pareti della stanza.
La prima volta avevo fumato affacciata alla finestra del bagno a casa di Giulia, al settimo piano del grattacielo sopra il casello del passaggio a livello. Avevamo sfilato un paio di Merit dal pacchetto della madre, svampita com’era non se ne sarebbe mai accorta. Non sapendo come farlo andare giù, trattenevo il fumo in bocca prima di buttarlo goffamente fuori a suon di colpi di tosse. Quel pomeriggio mi sentii invincibile, il mondo era ai miei piedi e io consacravo ufficialmente il mio passaggio nell’adolescenza più spietata che si potesse desiderare. Indossavo il reggiseno imbottito per riempire il vuoto del piattume del mio petto, ero troppo magra e troppo alta, particolare del mio aspetto che contribuiva a rendermi poco disinvolta nelle movenze, a conferma del disagio che mi armava e a cui provai a ribellarmi travestendomi da “ragazza”. In poco tempo avevo disegnato in mente la mappa degli anfratti del paese, dove insieme alle mie amiche andavamo a nasconderci per fumare o per tirare seghe ai ragazzi più grandi, a volte scambiandoci perfino di coppia. Chissà come facevano a venire tutte quelle volte quelli! Quando lessi per la prima volta la storia di Christiane F., poco dopo aver compiuto tredici anni e quando la morte dei miei nonni era arrivata come un’inondazione a travolgere il sottilissimo filo che manteneva in piedi l’equilibrio di una famiglia mezza sgangherata, capii che bastava pochissimo ad affondare, ma decisi che pur nuotando nella merda sarei stata agile nel mantenermi a galla.
Qualche anno dopo, quando con mia sorella ci ritrovammo a vivere da sole, iniziammo a comprare il tabacco da rollare per risparmiare. A quei tempi l’unica persona che conoscevo a fumare le sigarette rollate era mio padre, a cui quel particolare dava una certa aria da bohémien. Del resto, fumavamo anche per provare a somigliargli, e per dirci di avere qualcosa che ci accomunasse a lui. A differenza sua però, che fumava senza filtri, noi usavamo i biglietti della circumvesuviana per farli, e quando non avevamo le cartine ci industriavamo con la velina delle scatole di scarpe. Avevamo i nostri rituali, come la prima sigaretta alle sette di mattina col caffè, o la sigaretta in balcone prima di prepararci per uscire il sabato sera, con lo stereo a palla e qualcuno a cantare i nostri drammi.
Con il tempo, i rituali legati al tabacco si andarono accumulando e il mio finissimo strato di superstizione sottopelle, sintomatico delle mie origini meridionali, passava pure da là. Non fumavo mai prima di un esame all’università, ma era necessaria una sigaretta per iniziare la giornata. Fumavo quando ero ansiosa, annoiata, spaventata o stanca, ma mai prima di andare a letto. Accendevo una sigaretta alla fermata del bus in ritardo convinta che fosse solo grazie a lei che quello poi arrivava. Le sigarette mi salvavano dall’imbarazzo, e grazie al fumo avevo fatto un sacco di incontri, come quella volta dove, per un accendino dimenticato, mi ritrovai a scopare con uno che fino a poche ore prima non sapevo neanche chi fosse e che si trasformò nella mia ossessione per i due anni che seguirono. Dopo essermi trasferita, la prima cosa che facevo quando ritornavo a casa di mia madre era fumare con mia sorella sul balcone, il posto da cui, fumando, avevamo osservato le nostre vite cambiare nella cornice di uno scorcio che invece rimaneva spaventosamente immutato.
Quando quella domenica di dicembre, pochi mesi dopo il mio trentesimo compleanno, decisi di smettere di fumare, non ebbi nessun dubbio. Stavo per rompere i patti di fedeltà che avevo stretto fino a quel momento con il passato, rinunciando a quella che era stata l’unica costante della mia vita.
Fumai l’ultima sigaretta affacciata al balcone di casa a Jaén. Quella mattina mi sentii invincibile.

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